Il movimento internazionale per la giustizia climatica è stato protagonista di una mobilitazione inedita negli ultimi cinque anni. Quest’articolo si propone di tracciarne brevemente la rotta e di analizzarne il momento attuale, con uno sguardo alle sfide presenti e future nel contesto italiano ed europeo. Chi scrive ha partecipato al movimento, in modi e momenti diversi, in Gran Bretagna, Italia e Spagna, e trae ispirazione dalle tante conversazioni avute sia con altri attivisti in contesti di movimento, che in ambito accademico con chi si occupa di movimenti sociali ed ecologismo. Ad ogni modo, si tratta di un articolo di opinione e non esaustivo, che non aspira a rappresentare né lo sguardo dei movimenti né quello di chi li studia.
Da dove veniamo
Un lustro fa – finiva l’anno 2018 – era difficile non entusiasmarsi, per chi di noi militasse nel movimento ecologista, di far parte di uno tsunami di persone, soprattutto giovani e giovanissimi, che scendevano in piazza, pretendendo una trasformazione del sistema, guidati da giovani donne carismatiche. In quel momento la giustizia climatica ha subito una “metamorfosi” – come la chiamano Emanuele Leonardi e Paola Imperatore – da questione di governance internazionale e di stili di vita, com’era stata formulata negli anni precedenti, a un concetto inestricabile dalla critica delle disuguaglianze, del capitalismo e delle sue istituzioni. Di fronte all’intensificarsi delle mobilitazioni di massa, più o meno dirompenti, il “cambiamento climatico” diventava la “crisi” o l’“emergenza” climatica, i governi e gli organismi internazionali facevano a gara per incontrare pubblicamente i giovani manifestanti e si lanciavano in promesse di decarbonizzazione attraverso politiche fino ad allora impensabili, mentre le aziende fossili si trovavano costrette a dichiarare grandi cambiamenti di strategia, per quanto vaghi e intrisi di greenwashing. In quei mesi, almeno sul piano discorsivo, sembravamo avere la meglio: si trattava dunque di far pressione affinché gli annunci diventassero realtà, e che non ci si limitasse a contrastare il cambiamento climatico, ma si affrontasse la complessità della crisi ecologica – come scrive Marino Ruzzenenti su questo numero – generata non, genericamente, dagli umani, ma dal capitalismo.
Poi è arrivata la crisi sanitaria da Covid19, e ai più ottimisti di noi è parso che quella grande pausa di riflessione potesse essere comparsa al momento giusto, fungendo, nonostante tutto, da freno di emergenza, grazie al quale tutti avrebbero finalmente capito che la follia del produttivismo andasse sostituita dalla centralità della cura, ciò che tiene insieme il fragile sistema di relazioni umane e non umane grazie al quale viviamo la vita in ogni senso del termine. Eppure, la frenesia capitalista ha presto represso le nostre speranze, vendendo a poco l’irrequieto desiderio di tornare alla “normalità”. La normalità non si è fatta attendere e si è ripresentata nelle sue vesti peggiori. Negli anni post-pandemici, le promesse fatte dai governi e dalle imprese sono state quasi totalmente tradite e la necessità di una rapida ripresa economica, insieme all’inizio di una guerra più vicina del solito, sono state le scuse maestre per dirottare fondi dalla transizione ecologica a ben altre declinazioni di “sicurezza” ed “energia”.
La congiuntura attuale
Arriviamo dunque alla situazione attuale. Oggi mi sembra che, in Italia, come quasi ovunque nel continente europeo e non solo, stia avendo luogo la combinazione, simultanea, di quattro fattori.
Innanzitutto, un ritorno alla crescita esponenziale di emissioni di CO2 e di consumo di materiali ed energia, a un ritmo ben superiore a quello pre-pandemico, sostenuti dal crescitismo – l’ideologia per cui la crescita costante e infinita dell’economia è un bene in sé –, sovrastruttura della costante ricerca di profitto e accumulazione su cui si sostiene il capitalismo.
In secondo luogo, un’accelerazione spaventosa degli effetti del cambiamento climatico che sono arrivati a colpire direttamente le nostre vite anche nel Nord Globale, a un livello mai visto prima, con un susseguirsi sempre più frequente e capillare di eventi climatici estremi disastrosi (come siccità, inondazioni, macro-incendi) che provocano morti, collasso di ecosistemi, fallimento dei raccolti etc. In parallelo, per quanto meno visibili, dati spaventosi raccolti dagli scienziati del clima, come quelli sulle temperature oceaniche e l’imminente collasso della circolazione atlantica. E si potrebbe andare avanti.
Terzo, dal punto di vista politico, un backlash nella politica istituzionale e di partito: mentre i partiti di centrosinistra europei tutt’al più perpetuano l’arcinota abitudine di parlare di transizione ecologica per poi proporre politiche di mercato del tutto inadeguate e insufficienti, quelli di centrodestra e destra, che per un momento avevano sembrato adottare anch’essi la strategia del play it cool, stanno compiendo una rapida inversione strategica fondata su un copione già visto in altri ambiti (come quello dei diritti), che si può riassumere a grandi linee così: da un lato, una delegittimazione dell’ecologismo come preoccupazione da fighetti delle ZTL (gli ecologisti) e di un’élite europea e internazionale che viene associata strumentalmente a “la sinistra” (il Green Deal, le COP etc.), in contrasto con gli interessi delle “persone comuni”, da difendere, che devono arrivare alla fine del mese e non possono perdere il proprio lavoro inquinante per via della transizione o a causa di un’autostrada bloccata dai figli di papà di Ultima Generazione; dall’altro lato, una graduale meschina rilegittimazione del negazionismo climatico (anche qui il copione è lo stesso del revisionismo storico, del razzismo e dell’omofobia) non dichiarato apertamente ma a cui si allude costantemente, come fanno alcuni ministri del governo italiano: “Non so quanto il cambiamento climatico sia dovuto all’uomo” del ministro dell’ambiente, “In estate fa caldo in inverno fa freddo” del ministro dei trasporti, e così via.
Quarto, un movimento per la giustizia climatica in crescente difficoltà di fronte allo svilupparsi dei punti 1,2,3. Gli allarmi dell’“ora o mai più” lanciati qualche anno fa hanno perso d’efficacia perché essendo passato l’“ora” sembreremmo già essere nel “mai più”. Se i milioni di persone in piazza non sono bastati per dare il via a una transizione vera, la frustrazione è tale che le piazze si sono svuotate. E in preda al senso d’impotenza qualcuno ci ha rinunciato. Alcune persone hanno intensificato l’azione diretta, che però soffre una repressione sempre più sistematica: si pensi al tentativo di messa al bando, alla stregua di terroristi, dei Soulèvements de la Terre in Francia, alle accuse di terrorismo a Ultima Generazione in Germania, alle draconiane leggi contro le proteste in Gran Bretagna, agli anni di carcere inflitti a Ultima Generazione in Italia. Altre sono passate dall’azione diretta alla politica rappresentativa (si veda la recente candidatura di Carola Rackete in Germania).
I movimenti ecologisti oggi
In ciò che resta di questo breve scritto mi vorrei soffermare sul quarto punto, i movimenti sociali, per inquadrarne la fase attuale nel contesto dei primi tre punti. Partirei dal problema relativo all’urgenza della situazione. Il fatto scientificamente assodato che ogni grammo in più di anidride carbonica emessa nell’atmosfera aggravi la situazione e riduca il cosiddetto “budget climatico” globale – quanto ancora potremmo emettere prima di generare effetti biofisici catastrofici e incontrollabili – ha spinto il movimento per la giustizia climatica a usare strategicamente il tema dell’emergenza. Si è trattato però di un’arma a doppio taglio, come discusso fin da subito in innumerevoli dibattiti, sia per quanto riguarda i possibili contraccolpi reazionari (lo stato di emergenza corrisponde, di norma, alla sospensione della prassi democratica) sia per quanto riguarda il problema menzionato sopra: l’aver posto date di scadenza piuttosto concrete e iniziato un conto alla rovescia perché “poi sarà troppo tardi”, ora che il domani è già qui e la transizione sperata non è ancora avvenuta, ci costringe a contraddire la posizione precedente affermando che, in ogni caso, “non è mai troppo tardi” per fare qualcosa. Tuttavia, sbaglia chi vede nel senso d’urgenza la spiegazione della scelta di una strategia o di una teoria del cambiamento specifica, perché chi pensa che non ci sia più tempo da perdere sceglierà la strategia che per sua cultura politica ritiene comunque più efficace: per alcuni l’azione diretta, per altri la politica rappresentativa, e così via. In altre parole, l’urgenza è ovviamente reale, socialmente costruita ma non inventata; tuttavia, non credo che sia determinante sulla scelta delle modalità di azione.
Un fenomeno che invece credo sia effettivamente in gioco è quello che negli studi dei movimenti sociali si riconosce come un copione tipico dei movimenti di piazza, di cui un esempio sono i movimenti della sinistra extraparlamentare italiana tra gli anni ’60 e ’70: se la piazza piena non raggiunge i propri obiettivi, la piazza dopo un po’ si svuota. Poi, qualcuno rinuncia all’attivismo, altri pensano che sia l’ora di partecipare al gioco della politica istituzionale (“se lo stato non fa niente ci prendiamo lo stato”), altri ancora non vedono alternativa ad azioni più radicali e dirette. Questi ultimi sono, di fatto, coloro che continuano a costituire un movimento sociale. La radicalizzazione, in questo caso, si traduce convenzionalmente nel ricorso alla “violenza” contro le cose e/o persone (per quanto si tratti di forme di violenza incommensurabili), o, come direbbe il sociologo Charles Tilly, in un passaggio dalla logica dei numeri alla logica del danno. Negli anni ’70, in Italia, la violenza finì per rivolgersi contro le persone, con le conseguenze che conosciamo. Per quanto riguarda il movimento per la giustizia climatica, la speranza è che si ricorra esclusivamente, e strategicamente, a danni mirati contro le cose: imbrattamenti, sabotaggi, occupazioni, scioperi e così via (tutte cose raramente violente per davvero, ma che arrecano un danno concreto a oggetti, infrastrutture o aziende). Attualmente, credo che il movimento europeo per la giustizia climatica possa essere inquadrato, a grandi linee, in questa fase.
Per un’analisi più minuziosa, invece, credo possa essere utile fare riferimento alla “Cartografia minima di un ecologismo in ebollizione” proposta dallo studioso Adrian Alamazán in riferimento al contesto spagnolo, ma in certa misura applicabile altrove, che aiuta a guardare a diversi tipi di radicalità ecologista. Almazán propone di leggere l’ecologismo radicale in base alla diagnosi del presente e alle strategie di azione politica. Per quanto riguarda la diagnosi, Almazán colloca la linea divisoria tra chi pensa sia troppo tardi per evitare un collasso della civiltà contemporanea, che si genererebbe a causa del suo scontro con i limiti biofisici del pianeta (la sfida sarebbe dunque quella di “collassare meglio”, rappresentata dallo slogan “un’altra fine del mondo è possibile”), e chi vede ancora possibilità concrete di mitigazione da attuarsi attraverso le istituzioni attuali, dal momento che un “collasso” totale è una semplificazione irrealista. In gran parte, la questione del “collasso” (più rilevante nel contesto spagnolo e francese che in quello italiano) non è altro che la già menzionata questione delle temporalità, dell’urgenza e del margine d’azione ancora disponibile.
Ancora più interessante è la sua classificazione delle strategie d’azione. Almazán sottolinea giustamente che queste sono del tutto indipendenti dalla diagnosi, o meglio che una stessa diagnosi può giustificare, per persone diverse, strategie d’azione diverse. Il ricercatore spagnolo ne identifica sei: il “populismo verde”, che consisterebbe nella conquista dell’egemonia e, mediante una vittoria elettorale, in un ruolo forte dello stato nella transizione ecologica; il “comunismo ecologista”, che si sofferma sul conflitto capitale-vita e che si distingue dal populismo per essere meno legato alle elezioni e più a una varietà di possibilità di presa del potere, tra cui quella del colpo di stato ecoleninista proposto dal saggista svedese Andreas Malm; la “disobbedienza ecologista”, che corrisponderebbe a gruppi quali Fridays for Future, Extinction Rebellion e le loro successive biforcazioni (Ultima Generazione, Futuro Vegetal, Just Stop Oil, End Fossil! Occupy etc.), che nonostante le loro differenze avrebbero una relazione ambigua (e, aggiungerei, strategica) con lo stato, mantenendolo come interlocutore ma dichiarandolo simultaneamente inadeguato e indicando la società civile come il vero motore del cambiamento; i movimenti per la “difesa del territorio”, ossia i movimenti locali che, adattando il linguaggio al contesto italiano, si battono contro le grandi opere inutili (esempio eccellente il movimento No Tav); infine, il “comunalismo”, composto da quelle pratiche prefigurative di tendenza libertaria volte a trasformare direttamente i modi di vita. Le lettrici e i lettori del nostro paese, per esempio, potrebbero identificarlo, almeno in parte, con le pratiche agroecologiche di Genuino Clandestino e di Fuorimercato, con le comunità energetiche, i beni comuni, la cooperativa proposta dal collettivo di fabbrica della ex GKN e così via. In altre parole, si tratta di tentativi di commoning, ossia di rimuovere dalla sfera del mercato e dello stato quanti più aspetti della vita possibile e di prendersene cura, direttamente, in comune, senza per questo rinunciare al conflitto, che è una condizione necessaria per moltiplicare e difendere i beni comuni (azione diretta, occupazioni, scioperi etc.).
Naturalmente esistono innumerevoli sovrapposizioni ed è probabile che un’attivista si identifichi in più d’una di queste categorie, nonché possa individuare collaborazioni strette e dirette tra un gruppo e un altro (per esempio, nel contesto italiano, FFF si relaziona intensamente con il collettivo di fabbrica della ex Gkn, con il movimento No Tav, e così via). Per quanto queste categorie non mi sembrino il frutto di un minuzioso lavoro analitico né siano esaustive, le trovo utili come bussola essenziale, efficace per navigare tra alcuni degli approcci più comuni all’interno del movimento per la giustizia climatica, che a mio vedere (al contrario di Almazán) trovo il più delle volte compatibili l’uno con l’altro, soprattutto per quanto riguarda gli ultimi tre. Tuttavia, le categorie proposte potrebbero essere raffinate, sia raggruppandole in insiemi più grandi (differenziando, per esempio, tra chi punta sul controllo dello stato, come il “populismo verde” e il “comunismo ecologista”, e chi no), sia osservando differenze interne più sottili: per esempio, all’interno della “disobbedienza ecologista” c’è chi usa la logica del danno per obiettivi concreti (come le occupazioni di End Fossil! delle università, le azioni dirette dei Soulévements etc.) e chi invece usa il danno per una logica dei numeri (come l’imbrattamento temporaneo di un quadro, la cui efficacia si misura sul numero dei click al video piuttosto che sul danno in sé).
Dove vogliamo andare
Terminato questo quadro, rimane aperta la domanda: che fare di fronte alla complessa e pericolosa combinazione dei quattro fenomeni sopra elencati (ritorno al business as usual, fenomeni climatici già disastrosi, backlash della destra, cambiamento di fase dei movimenti)? Qui, a partire dalle analisi fatte finora, mi azzarderò a dare qualche suggerimento.
Il primo è quello di (continuare a) tenere insieme disobbedienza ecologista, lotte territoriali e comunalismo: l’alleanza tra questi movimenti – come vediamo in Italia nel caso dell’ex Gkn (ma non solo), dove le tre dinamiche si sovrappongono – è fondamentale. L’azione diretta e la disobbedienza civile rimangono inefficaci se non sono radicate in un territorio e se non puntano a costruire un’alternativa; le lotte territoriali non vincono senza azione diretta e appaiono mero campanilismo senza l’aspirazione a mettere in comune; il comunalismo non si crea senza azione diretta e non si mantiene senza radicamento nel territorio.
Il secondo deriva dalla necessità di declinare la transizione ecologica non come l’ennesima richiesta di sacrifici agli strati medio-bassi della popolazione, ma come la costruzione di un orizzonte florido e desiderabile per la maggioranza delle persone. Si tratta dunque di non permettere alla destra di invertire, ancora una volta, la realtà, ergendosi a paladina delle “persone normali” minacciate da una transizione ecologica voluta dai poteri forti. A questo fine trovo fondamentale, innanzitutto, una rinuncia alle azioni dirette che mirano a ostacolare la già complessissima vita delle “persone normali”, suscitandone le antipatie, se queste azioni non sono accompagnate, come già detto, da un radicamento nel e un’alleanza con i territori, e se non sono volte alla creazione, nel qui e ora, di proposte o pratiche che siano alternative e tangibili. Inoltre, penso sia fondamentale (continuare a) costruire alleanze strutturali e durature con la classe operaia e con tutti i soggetti marginalizzati. Non è questo lo spazio dove ritornare sulla dimensione di classe del cambiamento climatico, ma è bene tener presente che alla radice del surriscaldamento globale ci sono i privilegi dei ricchi, e che le sue conseguenze le pagano gli altri: la transizione, allora, si farà solo abbattendo le disuguaglianze.
Infine, la questione del lavoro: i movimenti ambientalisti devono pretendere, insieme alle, se non prima delle, misure ambientali, politiche sociali che rompano il ricatto occupazionale e che garantiscano a tutte e tutti una vita piena, come un reddito di base universale e incondizionato e la riduzione della settimana lavorativa a parità di salario, accompagnata da una riformulazione degli indici macroeconomici e sociali per cui si persegua non la crescita costante e infinita del PIL ma la crescita del benessere delle persone, parallelamente a una decrescita dei flussi di materiali ed energia nonché delle ore di lavoro. Insomma, si tratta di insistere sul fatto che lavoratrici e lavoratori stanno dalla stessa parte dell’ambiente, e che chi sta sfruttando entrambi è quell’1% che fa sempre più profitti nonostante e grazie all’attuale crisi ecosociale. È ovvio che qualcuno ci perderà nella transizione. La questione è se vogliamo chiedere sacrifici al 99% delle persone, e dunque fare il gioco della destra che difende lo status quo, o se abbiamo il coraggio di dire che, in realtà, a perdere sarà quell’1% che sta sfruttando sia la natura che il lavoro. Se abbiamo il coraggio di dirlo, e di farlo, allora potremo lavorare tutti, lavorare meno, lavorare meglio, decidere democraticamente per cosa e per chi lavorare, usare meno risorse ed energia e smettere di inquinare, rendendo così il futuro non solo possibile, ma bello e desiderabile.
* dal blog gliasinirivista.org - 24 Settembre 2023
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