24 marzo 2025

La sinistra statunitense deve decidersi

 di Rana Foroohar *

Cosa dovrebbe fare il Partito democratico statunitense? È una domanda importante non solo per il partito ma per gli Stati Uniti in generale. A parte il senatore Bernie Sanders, che sta viaggiando in tutto il paese per mobilitare le persone contro Trump, sono pochi i democratici che stanno cercando di farsi sentire, e ancora meno quelli che oppongono una qualche forma di resistenza politica al presidente. 

Non c’è stata contestazione alla sua politica incoerente sui dazi e nessuno ha battuto ciglio davanti alla proposta di ridurre le tasse ai ricchi e alle imprese, una misura che metterebbe il paese in una posizione fiscale molto difficile. Su questo sono stati i mercati a lanciare l’allarme. Perfino alcuni conservatori sono preoccupati dell’incapacità dei democratici di opporsi a Trump, soprattutto per il rischio che le sue politiche economiche possano spingere il paese in recessione. Peggy Noonan, che in passato ha scritto discorsi per Ronald Reagan, ha riassunto così la situazione: “Se i democratici non si daranno una svegliata, Trump e i repubblicani sapranno che non c’è nessun partito in grado di fermarli. L’assenza ingiustificata del Partito democratico è pericolosa”.

Eppure alcuni commentatori di sinistra difendono questa linea. James Carville, influente stratega democratico, ha sostenuto che il partito dovrebbe “fare il morto” e lasciare che Trump imploda. Altri suggeriscono di saturare lo spazio informativo per catturare l’attenzione dell’opinione pubblica, proprio come fa Trump. Entrambe le posizioni ignorano un punto cruciale: i democratici non riusciranno a comunicare con successo finché non avranno una posizione politica coerente. In questo momento non ce l’hanno, e questo perché non hanno ancora fatto la scelta cruciale tra la redistribuzione economica e una versione leggermente aggiornata del neoliberismo. La loro stella polare sarà Franklin D. Roosevelt o Bill Clinton?

Una manciata di grandi aziende ha troppo denaro e potere – come dimostra la grande influenza di Elon Musk su Trump – mentre i lavoratori ne hanno troppo poco  Mentre alcuni, come Sanders e la senatrice Elizabeth Warren, spingono per seguire la strada progressista, la leadership del partito e la maggioranza dei finanziatori democratici sembrano voler tornare a una versione neoliberista simile a quella dell’era Clinton-Obama. Una versione concentrata più sull’identità che sulla classe, a favore del libero mercato e focalizzata non tanto sulla politica industriale (e di conseguenza sugli interessi dei lavoratori) ma su come rendere il governo più efficiente.   È la tesi dei giornalisti Ezra Klein e Derek Thompson, che nel libro Abundance sostengono che è stato soprattutto l’eccesso di regolamentazione a mettere gli elettori contro i democratici. I due autori offrono ottimi esempi di come l’eccesso di regole, l’inefficienza e gli interessi particolari abbiano reso impossibile fare cose come costruire reti ferroviarie ad alta velocità in California o affrontare la crisi abitativa. Secondo loro i democratici devono togliersi dai piedi e lasciare che il governo possa fare le cose con più facilità.

Questa posizione sorvola su quella che secondo me è la disfunzione principale dell’economia statunitense: l’asimmetria di potere. Il settore privato, e in particolare una manciata di grandi aziende, ha troppo denaro e potere – come dimostra l’influenza politica di Elon Musk – mentre i lavoratori ne hanno troppo poco. E se la ricchezza e la popolazione sono concentrate in poche aree urbane, per lo più costiere, le aree centrali del paese hanno un peso politico enorme a causa del sistema elettorale. Gli eccessi di regolamentazione in California o a New York non hanno inciso sulla vittoria di Trump, ma è stato decisivo il fatto che gli abitanti delle comunità post-industriali impoverite in tre stati in bilico hanno votato in massa per lui, illudendosi che avrebbe protetto i loro posti di lavoro.

Finché questo sistema sarà in vigore, e se crediamo che i mercati senza vincoli non riescano a fornire beni fondamentali, allora dobbiamo pensare che un autentico programma progressista sarà la formula vincente per i democratici. Ma questo vuol dire che i ricchi di sinistra devono pensare al di là dei loro interessi. La tensione è evidente nell’incapacità del partito di opporsi al taglio delle tasse voluto da Trump: se i democratici dovessero un giorno tornare al potere, si troveranno davanti dei vincoli fiscali così soffocanti da bloccare tutte le loro proposte. I democratici non alzarono la voce nemmeno nel 2017, quando furono approvati tagli simili, perché ai ricchi finanziatori piace pagare meno tasse. Allo stesso modo, progressisti e neoliberali sono divisi tra chi è favorevole a una strategia incentrata sul midwest (dove le guerre commerciali di Trump potrebbero far lievitare i prezzi dell’energia per i produttori) e chi preferisce concentrarsi sul sud, dove si può parlare di razzismo evitando le grandi questioni economiche. A prescindere da come la si pensi, i democratici devono fare una scelta chiara. Fino ad allora, non avranno alcun messaggio da trasmettere.

Rana Foroohar è una giornalista statunitense esperta di economia. Collabora con il canale televisivo Cnn ed è columnist del Financial Times.

* Questo articolo del Financial Times  è uscito tradotto   sul numero 1606 di Internazionale, pag.42

16 marzo 2025

Serbia: La rivoluzione di Belgrado non si ferma

 Centinaia di migliaia di persone sfilano fino al parlamento. È una delle più grandi manifestazioni nella storia moderna del Paese


Elena Kaniadakis *

Ed ecco una grande piazza europea dove si fa politica, cioè si propone un cambiamento allo stato delle cose: Belgrado, piazza del parlamento. Di bandiere blu con le stelle gialle non ce n’è neanche una, solo tanti volti giovani che chiedono una magistratura indipendente, stampa libera, rispetto dello stato di diritto e non un presidente padrone. Hanno sfilato per le strade, dandosi il tempo con i fischietti, promettendosi di buttare giù un sistema che offre come orizzonte solo insicurezza, o l’‘esilio volontario’ verso altri paesi. «Hai mai visto così tanta gente?», chiede una ragazza alla sua amica, con una grande mano rossa come il sangue dipinta sulla guancia, simbolo della protesta. «Nikad, mai» risponde quella, e soffia tutto il fiato di cui è capace nel fischietto che si porta al collo. Vucic ha fatto a lungo leva sulla paura e sulla frammentazione sociale per evitare questo tipo di rivolta, ora è sulla difensiva, nel tentativo di spegnere il fuoco


È TRA LE PIÙ GRANDI manifestazioni nella storia moderna serba. Sono centinaia di migliaia di persone, tra gli organizzatori si sussurra «mezzo milione», a riempire tutte le principali strade e piazze di Belgrado, inclusa Slavija, quella che ospita la fontana sonora, simbolo delle brutture e delle speculazioni urbanistiche in atto nel paese. Il volto di Aleksandar Vucic, presidente serbo e protagonista indiscusso degli ultimi dieci anni con il Partito progressista serbo (Sns), non figurava da nessuna parte fra i cartelli della marea umana né negli slogan: non ce n’era bisogno. Ha a tal punto incarnato il potere autoritario in Serbia da essere naturalmente il destinatario politico del movimento di protesta.

TUTTI I CHILOMETRI percorsi in questi mesi di manifestazioni partecipatissime – a partire da novembre, quando la pensilina della stazione ferroviaria appena ristrutturata di Novi Sad è crollata sui passanti, uccidendone 15 – hanno condotto qui, davanti alla sede del parlamento. Senza simboli politici o partitici, questo movimento sta dando alla Serbia la scossa più politica di tutte, e chiede partecipazione ai processi decisionali, trasparenza, a partire dalla pubblicazione di tutti i documenti relativi al progetto di rifacimento della stazione. «La nostra è una domanda rivoluzionaria, molto più delle semplici dimissioni del governo: pubblicare i documenti vorrebbe dire smascherare le responsabilità criminali del potere, chiedere che la classe politica corrotta vada in prigione», racconta uno studente con il gilet catarifrangente e il casco protettivo, che cala sulla fronte, pronto, teoricamente, a proteggere la folla dalle auto che in più occasioni, nei mesi scorsi, hanno speronato i manifestanti. I trattori dei contadini arrivati dalle campagne aprono e chiudono i cortei, bloccando le strade e assicurando protezione. «Il nostro sembrava un paese vecchio, morto, e invece…», esulta Zoran, la sigaretta spenta tra le labbra, osservando compiaciuto il fiume in piena di persone, assiso sul suo trattore.

NIŠLIJE, LOZNICA, Kraljevo, Cacak, Užice, Kragujevac: i ragazzi di tante città hanno risposto all’appello, nonostante molte linee ferroviarie siano state interrotte per due giorni, con la motivazione ufficiale di un allarme per un «pacco bomba». Hanno macinato fino a 150 chilometri, dormendo nelle palestre comunali dei piccoli centri abitati, che li hanno accolti con lunghi applausi e mestolate di zuppe calde. È una delle tante magie portate da questo vento di primavera: anche i residenti delle zone rurali, dove il controllo clientelare del potere è asfissiante, e a lungo è riuscito a bloccare la scintilla della protesta, sentono di avere nuove energie. Belgrado non appare più come la roccaforte del dissenso politico, isolata dal resto del paese, ma la destinazione finale di una staffetta liberatoria. Anche le nonnine serbe davanti al parlamento premono a tutto spiano sulle trombette da stadio.

Nei giorni precedenti era stato tutto un tambureggiare bellico di dichiarazioni: «Ci aspettiamo violenze», «c’è un piano per scatenare la guerra civile», aveva dichiarato la presidente del parlamento, Ana Brnabic. Toni apocalittici di chi, più che temere lo scontro, sembrava auspicarlo.

Loschi figuri si erano accampati in piazza dai giorni scorsi, i bicipiti e qualche cicatrice bene in mostra: «Studenti impazienti di tornare sui banchi dell’università», li ha presentati il governo. Sono perlopiù scagnozzi prezzolati del Sns, ultras della squadra di calcio del Partizan, in cui sono confluiti alcuni ex riservisti dell’Unità per le operazioni speciali durante l’era Miloševic, tra i cui ranghi fu rintracciato l’assassino del primo ministro serbo Zoran Dindic nel 2003. Nella messa in scena, che avrebbe anche qualcosa di comico se non fosse per la violenza insita in essa, non potevano mancare i «trattori senza conducenti», fatti arrivare in fretta da un’azienda fuori città, per creare un cordone a difesa dell’accampamento, sulla falsariga di quanto avevano fatto i contadini «veri», a protezione degli studenti «veri». Nel tardo pomeriggio, fra «desiderosi di apprendere» e alcuni manifestanti c’è stato uno sporadico lancio di fumogeni, e gli organizzatori hanno spostato la parte finale del concentramento in una piazza più decentrata per allentare la tensione.

GLI SQUILLI DI TROMBA, gli applausi e le urla di incoraggiamento degli studenti coprono così il silenzio dell’Unione europea, al cui consesso la Serbia rimane candidata. Le proteste oceaniche sono state finora sostanzialmente ignorate da Bruxelles. Solo venerdì la rappresentanza Ue in Serbia ha invitato al «rispetto dei diritti democratici».

Qualcuno, più spiritoso, sventola in corteo le bandiere dei regni mitici del Signore degli anelli per incoraggiare la lotta contro Vucic, «l’oscuro signore». Perché un mondo letterario sia da preferire all’Ue è presto detto. «L’Europa è complice», attacca Milos, uno studente che si trascina dietro una gigantografia con la copertina della costituzione serba. «In tutti questi anni ha sostenuto Vucic, convinta che fosse il solo capace di assicurare la stabilità e lasciare campo libero agli investimenti che le stanno a cuore. La Germania vuole che venga aperta qui la più grande miniera di litio d’Europa, la Francia ha firmato un accordo per vendere i suoi jet Rafale… lo stato di diritto, per cui noi ci battiamo, viene calpestato in nome della ‘stability’».

VUCIC, IL LEADER POLITICO alto due metri che sognava di fare il pivot ed è stato invece ministro dell’Informazione negli anni novanta, durante la presidenza di Miloševic, ha addolcito da tempo i toni da giovane radicale nazionalista, quale era, e si è accreditato come il leader pragmatico, abile nel destreggiarsi su più tavoli da gioco, non solo con Bruxelles, ma anche con la Cina e ovviamente la Russia, di cui la Serbia rimane storica alleata (Belgrado non si è unita alle sanzioni contro Mosca dopo l’invasione dell’Ucraina). «Ha fatto a lungo leva sulla paura e sulla frammentazione sociale per evitare questo tipo di rivolta – spiega Ivica Mladenovic, ricercatore presso l’Istituto di filosofia dell’Università di Belgrado – ora è sulla difensiva, costretto a destreggiarsi tra repressione e concessioni limitate nel tentativo di spegnere il fuoco». Finora ha preso tempo, tenendo nella manica la carta delle elezioni anticipate che in più occasioni ha fornito la scappatoia ideale, grazie alla forte presa esercitata sugli impiegati statali, dopo le dimissioni del primo ministro avvenute a gennaio. Ma nessuno, tra i manifestanti, ha urgenza di tornare alle urne, proprio perché sa che la libertà di voto rischia di non essere garantita (Vucic ha annunciato un discorso alla nazione in tarda serata, dopo la chiusura del giornale).

TRA LE AULE OCCUPATE delle 60 facoltà, negli estenuanti dibattiti che si susseguono prima degli eventi di protesta, serpeggiano le opzioni più disparate: chiedere un governo di transizione, fondare un nuovo partito, rimanere fuori dall’arena parlamentare. La protesta ha anime politiche variegate e finora ha tratto vigore dall’aver convogliato il grande risentimento nei confronti della corruzione.

«Non c’è ancora una forza strutturata che possa incarnare l’alternativa» riflette Milos, proteggendosi con una bandiera serba dalle sparute gocce di pioggia che bagnano la festa.
«Dobbiamo organizzarci al di là delle strade, costruire una base militante nelle campagne, nelle assemblee locali, nei sindacati». La strada è in salita, ma la Serbia si è risvegliata giovane, si è affacciata sulla piazza del proprio futuro, e pretende che nessuno le chiuda la finestra in faccia.

* da il manifesto 16 marzo 2025

 

11 marzo 2025

L’Europa ha già riarmato, e sono armi made in Usa

 IL RAPPORTO SIPRI SULL’IMPORT-EXPORT BELLICO 2020-2024

 Giorgio Beretta (Opal): «L’export italiano è esploso, ma grazie alle autorizzazioni di Renzi e Gentiloni»

 di Roberto Zanini *

Il riarmo dell’Europa non l’ha inventato Ursula von der Leyen, né alcuno dei suoi valorosi epigoni freneticamente impegnati in vertici e incontri per fissare una cifra da sottrarre ai bilanci nazionali e investire in spese militari. E forse non l’ha inventato nemmeno Donald Trump, che pure ne è un favoloso acceleratore. Il suo riarmo, l’Europa lo sta già facendo da almeno cinque anni. E lo sta facendo con armi made in Usa. Quasi due terzi delle armi importate dai paesi europei della Nato negli ultimi cinque anni sono state prodotte negli Stati uniti. L’importazione di armi da parte dei paesi europei è più che raddoppiata dal 2020 al 2024 rispetto ai precedenti cinque anni, e quasi due terzi provengono dagli Usa: il 64%, contro il 52% del quinquennio precedente.

I dati sono contenuti nel nuovo rapporto sull’import-export bellico mondiale diffuso ieri dal Sipri (Stockholm International Peace Research Institute), la più autorevole centrale di controllo del mercato bellico del pianeta – il suo meticoloso Yearbook è un primario strumento di lavoro per chiunque si occupi della materia. È una fotografia dello spirito militare del tempo, quella del Sipri, fondato in Svezia nel 1966 per celebrare i 150 anni di pace ininterrotta del paese e diventato il miglior raccoglitore mondiale di dati e analisi sulle armi – la Svezia intanto faceva un altro percorso, e da esattamente un anno il paese è l’orgoglioso 32esimo membro della Nato.

I DATI del Sipri dicono che un riarmo era già lanciato, la guerra in Ucraina ne ha moltiplicato enormemente la scala, fino a oggi è stato dipendente dalle forniture degli Stati uniti, il clamoroso voltafaccia del neo-presidente americano Trump costringerà l’Europa a spendere molto di più per essere molto meno legata agli approvvigionamenti Usa. Con un enorme dubbio nel mezzo: proprio la dipendenza dalle forniture americane sarebbe la miglior garanzia che Trump non sfilerà gli Stati uniti da quel patto atlantico firmato ottant’anni fa e ormai modificato da intangibile alleanza politica a trattabilissima relazione economica.

NEL PERIODO analizzato dal Sipri, l’Ucraina è comprensibilmente diventato il principale importatore mondiale di armi, comprandone quasi cento volte di più che nel quinquennio precedente e ricevendo l’8,8% di tutte le armi importate nel mondo (poco sotto ci sono India, Qatar e Arabia Saudita). Nello stesso periodo le importazioni europee sono aumentate del 155% – almeno 35 stati, in maggioranza europei, hanno ceduto armi a Kiev dopo l’invasione della Russia. Gli Stati uniti hanno aumentato la loro fetta di contratti militari globali e ora sono al 43%. La Russia ha invece visto cadere le sue esportazioni belliche del 64% – le armi che fabbrica hanno un uso immediato e ne resta meno per l’export.

64%. È la quota di armi americane acquistate dai paesi Nato, che nel quinquennio 2020-2024 hanno più che raddoppiato gli acquisti. La quota precedente era il 52%

C’È DA DIRE che nel quinquennio è solo marginalmente aumentata la quantità complessiva di armi comprate e vendute. Sono invece cambiati, e molto, gli acquirenti. E in parte anche la classifica di chi compra e di chi vende: se i primi dieci venditori sono rimasti gli stessi, Italia ha scalato la graduatoria passando dal decimo al sesto posto globale, un più 138% – il più grande aumento tra i dieci top produttori globali – che aveva già messo le ali ai piedi all’industria bellica nazionale prima che Trump e RearmEurope facessero anche di più. «L’export è aumentato – sottolinea Giorgio Beretta, analista dell’Osservatorio permanente armi leggere (Opal) – ma l’aumento del Sipri registra le consegne finali e dipende da ordinativi e autorizzazioni rilasciate durante i governi Renzi e Gentiloni, quando hanno toccato il loro massimo storico».

138%. Il Made in Italy è esploso: dei primi 10 produttori mondiali l’Italia è il paese che registra l’aumento maggiore (ma sono autorizzazioni dei governi Renzi e Gentiloni)

Quella nei numeri del Sipri è produzione bellica di centrosinistra, ingrassata di vendite a vari petrostati come Arabia saudita e Emirati. Per calcolare quella della destra bisognerà aspettare qualche tempo, anche se i dati di Borsa illuminano un po’ il quadro: la nuova belligeranza europea ha fatto volare la tedesca Rheinmetall (+114% in un anno nel 2024), le italiane Leonardo (+73%) e Fincantieri (+60), la svedese Saab (+53%), la tedesca Hensoldt (+41%), la britannica Quinetiq (+34) e tutte le altre del comparto.

IL FUTURO? Si può indovinare nella tabella Sipri degli ordinativi già firmati. Con 996 aerei, 342 elicotteri da combattimento, 7 navi da guerra, 41 sistemi missilistici terra-aria e 403 carri armati, gli Stati uniti resteranno – e largamente – il principale fornitore di armi del mondo. A remotissima distanza la Francia per i 214 caccia e le ben 22 navi da guerra, la Germania per i 454 tank, l’Italia per i 1.865 “altri veicoli blindati”. Ma ora arriveranno gli 800 miliardi di RearmUe.

nella foto: manifestazione per la pace a Roma

* da il manifesto - 11 marzo 2025

8 marzo 2025

Iran, il velo «sconfitto»

 Pezeshkian rifiuta la richiesta dei parlamentari: «Non farò rispettare la legge su hijab e castità: non mi metto contro il popolo». Già è cominciata l’offensiva delle forze conservatrici anche contro lo stesso presidente

 

 di Francesca Luci *

209 deputati (su 290) del Parlamento della Repubblica Islamica hanno inviato una lettera al presidente della Camera, chiedendo l’applicazione della legge sulla castità e sull’hijab, sospesa lo scorso dicembre dal Consiglio supremo per la sicurezza. La normativa prevede pene severe per le donne e le ragazze che violano l’obbligo del velo, tra cui multe, pene detentive e fustigazioni.

MERCOLEDÌ 5 febbraio, il presidente iraniano Pezeshkian, in una sorprendente presa di posizione contraria, ha dichiarato: «Non posso far rispettare la legge perché crea problemi alla popolazione e io non mi metterò contro il popolo».

Le parole semplici di Pezeshkian contengono un enorme significato politico e sociale. È stato implicitamente riconosciuto che la legge contraddice l’articolo 9 della politica generale del sistema, che stabilisce che le leggi devono essere applicabili, orientate ai bisogni reali e garantire la massima partecipazione.

CIÒ DI FATTO significa che la legge si è scontrata con il volere del popolo, che ne ha avuto abbastanza della pretesa del sistema di controllare la sfera privata delle famiglie, delle donne e dell’istigazione degli uomini contro madri, sorelle, mogli e figlie. Certo, non c’era forse bisogno di sentire queste parole dopo decenni di proteste e repressioni, ma l’affermazione di Pezeshkian suona come una certificazione ufficiale della vittoria del movimento femminile contro le imposizioni del regime.

IL MOVIMENTO femminile iraniano è in prima linea nella battaglia per i diritti civili da diversi decenni. È riuscito a creare una catena di equivalenze tra le sue attiviste, concentrandosi sulla lotta contro le leggi discriminatorie. Le differenze tra donne religiose e secolari, tra socialiste e liberali, tra nazionaliste e attiviste per i diritti delle minoranze etniche si sono ridotte in favore di un’identità collettiva basata sulla lotta contro la discriminazione legale.

Negli anni, il movimento, colpito dall’esilio forzato di molte, ha visto una nuova generazione di donne più giovani e radicali portare la battaglia su un nuovo fronte, concentrandosi sulla liberazione del corpo femminile dal controllo statale. La lotta contro il velo obbligatorio è divenuta il centro del discorso femminile e il punto di incontro per donne di tutte le classi sociali, dalle lavoratrici urbane alle donne della borghesia religiosa, ed è diventata il simbolo dell’opposizione al regime.

QUESTA NUOVA fase ha rafforzato l’identità femminile come opposizione diretta all’identità teocratica dominante, favorendo l’alleanza con altri movimenti sociali. Le donne sono diventate protagoniste della protesta studentesca, hanno organizzato movimenti sindacali e si sono alleate con i lavoratori, portando il movimento femminile al centro della lotta per la democrazia in Iran.

LE GIOVANISSIME ragazze hanno ballato per le piazze del paese, bruciando i loro copricapo nella straordinaria mobilitazione di protesta “Donna, Vita, Libertà”, che ha attraversato l’intera società iraniana. Le onde di protesta si sono ritirate solo apparentemente dopo una lunga e sistematica repressione. Tuttavia, hanno lasciato una scia di disobbedienza civile che di fatto ha spazzato via l’obbligo del velo. La resistenza femminile, nonostante anni di repressione, ha radicalizzato profondamente il discorso democratico, rendendolo più inclusivo e universale. La società iraniana ha accumulato un tale livello di azione collettiva e resistenza che è pronta per la transizione democratica.

Le dichiarazioni di Pezeshkian, per quanto significative, certo non segnano una vittoria definitiva: le forze conservatrici al potere continueranno il tentativo di controllo sociale. Già è cominciata l’offensiva anche contro lo stesso presidente. Tuttavia, il fatto di riconoscere apertamente l’impossibilità di applicare una legge repressiva rappresenta un punto di svolta, pur non essendo appagante rispetto all’immenso tributo che le donne iraniane hanno pagato in questi anni.

LA BATTAGLIA non è solo una questione di indumento per le donne, ma il simbolo di una più ampia lotta per i diritti, la libertà e la democrazia in Iran. La voce delle donne iraniane è ormai troppo forte per essere ignorata.

* da  il manifesto 8 marzo 2025

4 marzo 2025

Armaroli: «Le centrali che vuole il governo non esistono»

 Intervista Il dirigente di ricerca del Cnr: «L’azienda che stava sviluppando il nucleare modulare ha chiuso il progetto. L’Italia e l’Europa non hanno materia prima. Il più grande player è Rosatom, di proprietà del governo russo. Contro di essa ci si è ben guardati da imporre sanzioni»

di Luca Martinelli *

In Italia si è acceso il dibattito sul nucleare: venerdì scorso il consiglio dei ministri ha approvato un disegno di legge per conferire una delega all’esecutivo su quello che è stato definito il «nuovo nucleare sostenibile», da allora i membri del governo hanno continuato a rilasciare interviste che mancano di descrivere che cosa renderebbe davvero diverso un ritorno all’atomo. Ieri il ministro dell’Ambiente Pichetto Fratin si è arrampicato su specchi molto inclinati cercando di spiegare il motivo per cui il provvedimento non sarebbe in contrasto con la volontà espressa dai cittadini di cancellare il nucleare con due referendum nel 1987 e nel 2011. «Questa scelta, dopo un’analisi fatta anche con molti giuristi, non va a contrastare i referendum. Il ddl dice chiaro che non ci saranno più le grandi centrali. È un po’ come un referendum su un motociclo anni Trenta e poi una Ferrari di oggi». La Ferrari di cui parla, però, non c’è, come spiega Nicola Armaroli, dirigente di ricerca presso il Cnr: «Si continua a parlare di una tecnologia che non esiste. Questo fa sì, tra l’altro, che non si possa sapere quanto costano queste nuove centrali. E io mi chiedo qual è la base numerica di un business plan in base al quale questo governo dice che l’energia prodotta dalle centrali costerà meno. Sulle bollette non si può scherzare».

A febbraio è stato audito alla Camera: ha spiegato che le tecnologia su cui punta l’Italia non ci sono. Che cosa intende dire?
La prima azienda che stava sviluppando il nucleare modulare su piccola scala, NuScale, alla fine del 2023 ha annunciato che chiude il progetto. Si tratta di un’azienda Usa, la prima ad avere ottenuto l’autorizzazione a mettere sul mercato un reattore da 77 megawatt. Arrivati però al dunque, con l’impianto già venduto a un paio di aziende, ha dovuto ammettere che le stime promesse sui costi di produzione di energia elettrica erano errate, che il prezzo reale sarebbe stato ben più alto rispetto a quanto prospettato. In Francia, invece, Edf ha abbandonato il piano di realizzare quelli che si chiamano Smr, Small modular nuclear reactors. Questi sono i fatti. L’idea dei Smr non è nuova. Prima però occorre un prototipo credibile dai costi certi e poi fabbriche che lo producono in serie. Il governo dovrebbe essere più esplicito su questo dettaglio.

Grafici alla mano, nella sua audizione ha sfatato anche il mito di un presunto rinascimento nucleare. Qual è la realtà?
La curva dell’andamento degli impianti nucleari è ben nota. I tre decenni d’oro del nucleare sono stati quelli tra gli anni Cinquanta e gli anni Ottanta. Da quarant’anni le installazioni non aumentano. Gli Usa, paese che detiene la tecnologia, le risorse e i siti in cui realizzare nuove centrali, ha zero reattori in costruzione. Perché? Poniamoci la domanda.

C’è poi un altro limite, legato all’uranio, alla sua disponibilità e al suo prezzo, che è schizzato del 137% dal 2021.
L’Italia e l’Europa non dispongono di materia prima. Il più grande player del settore nucleare è Rosatom, una società di proprietà del governo russo, che dispone di una filiera integrale del nucleare. Contro di essa ci si è ben guardati da imporre sanzioni, anche perché questo avrebbe creato seri problemi a numerose centrali in tutto il mondo, alle quali fornisce ad esempio le barre di combustibile. Oggi i dominatori della tecnologia nucleare, che nelle economie di mercato ha fallito, sono Cina e Russia. Questa è la situazione. E non si capisce perché se sulle risorse e tecnologie russe e cinesi facciamo tanti distinguo, l’idea che dominino nella filiera nucleare passi sotto silenzio. Mi chiedo poi se è plausibile quello che propone il governo, ovvero che gli investimenti del programma italiano li faccia il privato. Non esiste un paese al mondo a economia di mercato dove il nucleare sta in piedi da solo. Quindi il decreto certifica che il nucleare non si farà. A meno che non si voglia aggirare l’ostacolo, considerando «private» le grandi aziende nazionali partecipate a maggioranza dallo Stato.

Quanti sarebbero i reattori in costruzione in Italia?
Decine di piccoli reattori, indicativamente tra 50 e 200, quindi molto diffusi lungo lo Stivale. Ho però l’impressione che il nucleare sia soprattutto un argomento politicamente comodo. Si dichiara di risolvere un problema (bollette alte). Tanto poi, coi tempi biblici in gioco, la patata bollente toccherà a qualcun altro.

* da il manifesto 4 marzo 2025