Medio Oriente La Turchia è vicina a un obiettivo perseguito per 13 anni: assumere il controllo del paese vicino. Il presidente turco accoglie il neo-leader e promette collaborazione militare ed economica e sostegno nella lotta all'esperienza democratica del nord-est
di Murat Cinar da il manifesto 5 febbraio 2025
Ieri, 4 febbraio, Ahmed al-Sharaa (Mohammed al-Jolani), proclamato presidente del governo di transizione in Siria, è arrivato ad Ankara su invito del presidente turco Recep Tayyip Erdogan. È il suo secondo viaggio all’estero dopo l’Arabia saudita. Al-Sharaa è stato trasportato dalla capitale Damasco ad Ankara con un aereo della presidenza turca, poi Erdogan lo ha accolto nel palazzo presidenziale di Bestepe. ALLA CERIMONIA UFFICIALE erano presenti anche il capo dei servizi segreti, Ibrahim Kalın, il direttore della comunicazione della presidenza, Fahrettin Altun, il consigliere capo per la politica estera e la sicurezza, Akif Çagatay Kılıç, e il ministro degli Esteri, Hakan Fidan.
Alla fine dell’incontro a porte chiuse, durato poco più di due ore, Erdogan e al-Sharaa si sono presentati davanti alle telecamere per una conferenza stampa. Il presidente turco ha ricordato le brutalità commesse dal regime baathista negli ultimi tredici anni ed elogiato l’operato delle formazioni paramilitari che hanno preso il controllo lo scorso dicembre. «Come abbiamo fatto in passato, anche oggi e domani sosterremo il popolo siriano. Da circa due mesi lavoriamo intensamente per ripristinare i rapporti e spero che le visite reciproche continuino anche in futuro», ha dichiarato Erdogan, segnando ufficialmente l’inizio di un percorso molto atteso.
Entrambi i leader, dice, sono d’accordo su tutti i punti: «Soprattutto sulla lotta contro le organizzazioni terroristiche e separatiste e i loro sostenitori, che occupano il nord-est della Siria. Per ogni tipo di azione contro il terrorismo siamo pronti a fornire alla Siria tutto il nostro sostegno», ha affermato Erdogan, riaprendo così il capitolo Rojava. Il governo turco, sin dalla nascita dell’esperienza del confederalismo democratico, ha sempre definito le forze politiche e armate presenti nella regione come una «minaccia». Tra i temi discussi dai due leader c’è stato anche quello dei centri penitenziari in Rojava, dove si trovano circa novemila ex militanti dell’Isis, attualmente sotto il controllo delle Forze Democratiche Siriane (Sdf) con il supporto dell’esercito statunitense. Erdogan ha sottolineato che Ankara sarebbe pronta ad affiancare Damasco nella gestione di questi centri.
Lo scorso mese, anche Michael Kurilla, comandante generale del Comando combattente unificato delle forze armate degli Stati uniti, durante una visita nella Siria del nord-est aveva definito il tema «cruciale» per il futuro della regione. Inoltre, Erdogan ha dichiarato che la Turchia è pronta a offrire ogni tipo di sostegno per ripristinare le infrastrutture e ricostruire le città. Secondo il presidente turco, questo percorso consentirebbe ai cittadini siriani presenti in Turchia di rientrare nel loro Paese in modo più sereno. INFINE, HA INVITATO «il mondo musulmano e arabo» a fornire il necessario sostegno alla Siria in questa fase storica. Il neo presidente siriano ha tenuto un intervento più breve, ricco di ringraziamenti nei confronti di Erdogan e della Turchia. Al-Sharaa ha sottolineato che per Damasco il legame storico tra i due Paesi è indimenticabile e ha ribadito la necessità di costruire una partnership strategica in tutti i settori per il futuro, soprattutto in quello della sicurezza. «Abbiamo analizzato le attuali minacce presenti nel nord-est e quelle provenienti da Israele. Tel Aviv deve ritirarsi e rispettare i confini del 1967», ha dichiarato al-Jolani. Infine ha ringraziato Erdogan per i piani di sostegno alla ricostruzione della Siria e lo ha invitato a visitare presto il Paese. A 13 anni dallo scoppio della guerra civile siriana, la Turchia si avvicina al suo obiettivo: assumere il controllo del paese vicino.
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Nord-est siriano, democrazia in cerca di futuro
Resistenze Dalla diga di Tishreen a Damasco, l'autonomia è a un bivio
di Chiara Cruciati e Giansandro Merli da il manifesto
NORD-EST SIRIA Il primo convoglio è partito da Kobane alla volta della diga di Tishreen l’8 gennaio. Di fronte aveva 76 chilometri e il fuoco delle milizie filo-turche, la galassia salafita e islamista riunita sotto l’appellativo di Esercito nazionale siriano (Sna). Auto e furgoncini si sono messi in marcia per proteggere una diga che è molto più di una semplice infrastruttura: è il punto che segna il passaggio a nord-est, il confine invisibile tra la sopravvivenza del confederalismo democratico e l’occupazione turca. Le marce, dalle comunità vicine e da quelle lontane, non si sono mai interrotte. Da tre settimane, tra le colline boscose del nord, la popolazione siriana presidia la diga con i propri corpi. Arrivano a piedi, si fanno forza gridando «lunga vita alle Sdf, lunga vita alle Ypj», tributo alle Forze democratiche siriane e alle Unità di autodifesa curde delle donne, prezioso patrimonio di 13 anni di rivoluzione. Con le bandiere in mano si affollano sull’impianto che attraversa l’Eufrate, 40 metri di altezza per sei turbine. L’ex partito di regime Baath ne avviò la costruzione nel 1991 per fare il paio con la diga più a sud, sul Lago Assad. Il rischio è altissimo. Dall’8 gennaio 24 civili sono stati uccisi a Tishreen dal fuoco sparato dai miliziani filo-turchi e dai droni di Ankara. Tra le vittime anche tre operatori sanitari del presidio medico permanente, tre ambulanze e un gruppo di infermieri e paramedici. Almeno 221 i feriti, tra cui sette giornalisti. Gli attacchi dal cielo hanno preso di mira le auto e i piccoli autobus, parcheggiati alla diga o ancora in cammino, e messo fuori uso l’infrastruttura: centinaia di villaggi sono a secco e al buio. «La diga è un’infrastruttura vitale per la popolazione civile – ci spiega Hussein Othman, co-presidente del consiglio esecutivo dell’Amministrazione autonoma del nord-est siriano – Fornisce acqua ed elettricità a tutta la regione, per questo la gente è in prima linea». Un impianto vitale tanto più in un contesto di isolamento: l’accerchiamento del Rojava da parte della Turchia e l’embargo di fatto imposto da Ankara rendono la regione quasi impermeabile al mondo esterno. Sono i paesi vicini a decidere cosa entra o esce. Ogni risorsa naturale a disposizione è preziosa. «La gente ha ribattezzato Tishreen diga della resistenza», dice Rojhelat Afrin, la comandante delle Ypj. Ci accoglie in una base militare: «La linea del fronte è dieci chilometri a ovest di Tishreen e, più a nord, del ponte Qaraqozaq. L’Sna tenta di avvicinarsi e la Turchia colpisce dal cielo. Se i mercenari dovessero raggiungere la riva orientale del fiume Eufrate, potrebbero arrivare a Taqba, Raqqa, Kobane. La gente lo sa, la resistenza sta bloccando l’avanzata islamista».
Dalla deposizione del presidente Bashar al-Assad, l’8 dicembre 2024, l’unico fronte militare aperto in Siria è questo. L’Sna, manovrato ed equipaggiato dalla Turchia, non si è mai diretto a sud, verso Damasco. Dall’inizio dell’offensiva-lampo di Hayat Tahrir al-Sham (Hts), il 27 novembre scorso, l’Sna ha guardato a oriente, all’occasione sempre rimandata di prendersi – per conto di Ankara – l’intero Rojava. Da allora, sono 51 i civili uccisi in tutta l’area, 245 i feriti. Il massacro peggiore è del 25 gennaio, 12 vittime al mercato di Sirin. La via di uscita sarebbe il cessate il fuoco con la Turchia, per salvaguardare la popolazione civile e le conquiste del sistema democratico. L’altro fronte è politico e guarda a sud, verso la capitale. La linea delle autorità del Nord-est è chiara: apertura al dialogo con la nuova Damasco e al processo di integrazione nazionale. Una disponibilità che può diventare effettiva solo a certe condizioni. Toccano il rispetto delle prerogative democratiche, di un certo grado di autonomia, dei diritti di donne e minoranze. I rappresentanti dell’Amministrazione vogliono essere parte del processo costituente che dovrebbe scrivere una nuova Carta. Al momento, però, l’unica questione sul tavolo dell’unico incontro è stata militare. Il 30 dicembre Abu Mohammad Al Jolani, neopresidente ad interim, ha ricevuto Mazloum Abdi, ministro della Difesa del Nord-est e capo delle Sdf. «Stiamo tentando di risolvere le questioni attraverso il negoziato con il nuovo governo. Non vogliamo separarci ma essere riconosciuti. Siamo d’accordo a non dividere la Siria in più entità e avere un unico esercito. I dettagli, però, arriveranno in futuro», ha dichiarato lunedì scorso Abdi davanti a una delegazione internazionale. Alle sue spalle la bandiera siriana con tre stelle rosse, simbolo del pre e post Baath, e i vessilli delle Sdf/Ypg. È proprio nei «dettagli» del rapporto tra Stato centrale e autonomia regionale, però, il cuore del problema. Il 19 gennaio il nuovo ministro della Difesa di Damasco Murhaf Abu Qasra, citato da Reuters, ha respinto le richieste Sdf di partecipare all’esercito nazionale come blocco. Devono «entrare nella gerarchia della Difesa ed essere distribuiti in modo militare», ha detto. Sarebbe la fine della federazione di unità combattenti, creata dai curdi ma a maggioranza araba, che tra 2014 e 2019 ha sconfitto l’Isis e garantito l’autodifesa del confederalismo. «Insistiamo per entrare nell’esercito come gruppo o brigata speciale, altrimenti la situazione sarebbe peggio che sotto Assad. Butteremmo via tutta la nostra lotta», ha risposto Rojhelat Afrin. La comandante ha lasciato intendere che le forze del Nord-est puntano a un comando decentralizzato, almeno per ora. Perché, spiega, «con un governo rappresentativo di tutti i siriani non avremmo problemi a rispondere a un comando unico. Ma prima serve un processo democratico inclusivo».
I segnali che arrivano dalla capitale, però, vanno in direzione opposta. Nella cerimonia di insediamento di Al Jolani le autorità del Nord-est non sono state invitate. C’era invece l’Sna. Non sono loro la minaccia principale al confederalismo democratico, ma il presidente turco Recep Tayyip Erdogan. Il suo esercito, il secondo della Nato, preme da nord. Le milizie a lui affini attaccano da ovest. L’Hts, che prima governava solo la regione di Idlib dove la lira turca è la moneta corrente, governa a sud. La regione autonoma e il suo progetto di convivenza tra popoli, di eguaglianza tra uomini e donne è nella morsa di Ankara, in una fase particolare, di riavvio del dialogo tra la Turchia e il fondatore del Pkk, Abdullah Öcalan, di cui a breve è atteso un messaggio: conterrebbe – dice Abdi – «cose positive anche sulla Siria». Sembra quindi fondamentale che la Coalizione internazionale anti-Isis, Stati Uniti e un po’ di Francia, non lasci l’area. A dicembre il Pentagono ha reso noto che i militari statunitensi in Siria sono 2mila. Resta da vedere cosa deciderà Trump. Voci su una prossima smobilitazione paiono smentite. «Il team che lavora con noi ritiene che la posizione Usa non cambierà», afferma Abdi.
Altra questione geopolitica riguarda Israele. I suoi attacchi ai siti militari siriani dopo la caduta di Assad hanno fatto comodo alle forze del Nord-est, che senza il vicino turco risulterebbero quelle meglio attrezzate e organizzate. Sulla relazione con Tel Aviv , però, gli ufficiali Sdf danno risposte evasive. «Non ci sono comunicazioni», taglia corto il portavoce Abgar Daoud. L’impressione è che da un lato pesino le politiche coloniali e genocidarie del governo israeliano, dall’altro il fatto che quello potrebbe rimanere l’unico protagonista regionale non ostile. Anche perché le differenze con la presidenza di Al Jolani non sono legate alla contingenza o agli interessi di Ankara. Sono profondamente politiche, quasi antropologiche. Dopo la rivoluzione a Nord-est tutte le cariche importanti hanno due co-presidenti: un uomo e una donna. A Damasco l’unica ministra donna, Aisha al-Dibs nominata su pressioni internazionali, seguirà gli affari femminili. Le sue prime dichiarazioni sollevano dubbi: «Le donne sono responsabili in primo luogo delle famiglie e dei mariti». Nella regione autonoma, al contrario, le donne sono determinanti a livello militare e politico. È per questo che la comandante Afrin sfida i nuovi padroni di Damasco: «Siete pronti a nominare una donna a capo del ministero della Difesa?».
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Hamdan Al-Abed: «Al contratto sociale non rinunceremo mai»
Intervista Uno dei membri arabi del Consiglio esecutivo dell'Amministrazione autonoma (Daanes) racconta la situazione nella sua città, Tal Abyad, e il precario equilibrio, anche politico, nella Siria del nord-est
di Chiara Cruciati ( da RAQQA ) su il manifesto - 1 febbraio 2025
I membri del Consiglio esecutivo sono seduti una accanto all’altro davanti al logo dell’Amministrazione autonoma della Siria del nord-est (Daanes): intorno alla mappa del paese, tagliata dal blu del fiume Eufrate, il nome dell’autonomia è in tre lingue, curdo, arabo e siriaco. Donne e uomini, curdi, arabi, siriaci, sono lì a raccontare – con la loro mera presenza – il senso più profondo del progetto rivoluzionario. Rappresentante di una democrazia diretta, il Consiglio esecutivo coordina il lavoro e le decisioni assunte dai comitati di base, quelli che dai quartieri salgono su fino ai cantoni, passando per città e villaggi. Tra loro c’è Hamdan al-Abed, vice co-presidente arabo del Consiglio, il capo coperto da una kefiah bianca e la voce poderosa quando dice che «no, non siamo separatisti, ma non rinunceremo al nostro contratto sociale. La Daanes non è solo curda, né solo le Sdf. Io sono di Tal Abyad, occupata dai turchi: sono uno sfollato, ho sofferto come gli altri, da arabo». Lo intervistiamo a margine dell’incontro.
Qual è la situazione oggi nella sua città, Tal Abyad?
È occupata dalla Turchia dal 2019. È passata da un sistema dispotico a un sistema di occupazione, in tutti gli aspetti della vita, politici, economici, sociali. Nella mia città vivono curdi, arabi, turkmeni, siriaci, armeni, ma le forze che ora la controllano accettano un solo colore, quello turco. Gli armeni sono fuggiti in altre parti della Siria, ma anche all’estero. Odiano anche noi arabi perché, dicono, non sosteniamo il progetto neo-ottomano.
Ha ancora familiari lì? La sua casa esiste ancora?
Io ora vivo a Raqqa, da sfollato. La mia casa a Tal Abyad è stata occupata dalle milizie filo-turche. Se scoprono qualcuno a chiamarmi o a comunicare con me, lo puniscono duramente.
Quanto è importante la componente araba dentro le Sdf, le Forze democratiche siriane?
Almeno la metà delle Sdf e della Daanes è araba. Abbiamo combattuto a Kobane sotto le Ypg e le Ypj, le unità curde popolari e delle donne. Ogni persona deve combattere per la propria esistenza: dovevamo e dobbiamo difenderci dal terrorismo. Non crediamo nel separatismo, crediamo nella coesistenza di ogni componente della società, etnica e religiosa.
Come vede il futuro delle donne nella nuova Siria?
Nella Daanes le donne sono presenti a ogni livello e in ogni settore, non intendiamo rinunciarci nel dialogo che avremo con il nuovo governo di Damasco. Al momento non abbiamo risposte: il ministero della difesa ha detto che le donne entreranno nell’esercito? I nuovi leader hanno parlato di diritti delle donne? Andranno creati dei comitati, militari, politici e sociali e le donne con le loro organizzazioni dovranno partecipare, insieme agli esponenti di tutte le comunità della Siria. La conferenza nazionale promessa, che dovrebbe discutere della futura forma di governo, non è ancora partita, è presto per dire cosa accadrà. Di certo noi non intendiamo dissolvere le Sdf fin quando non avremo rassicurazioni sul rispetto dei diritti di tutti. Non ci sarà alcuna integrazione fino alla stesura della nuova Costituzione.
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Siria: Al Hol, la bomba che ora rischia di esplodere
Reportage dal Nord-est della Siria Visita al campo che ospita 40mila familiari dei jihadisti catturati dopo la fine del Califfato. Un inferno con i suoi gironi - siriani, iracheni, stranieri "rimossi" dai loro paesi - e dinamiche di un piccolo Stato islamico. Pronto pericolosamente a risorgere. Parla la direttrice della struttura Jihan Hanan: «Abbiamo avuto informazioni che l’Isis sta pianificando qualcosa. Non sappiamo se un attacco dall’esterno o una rivolta all’interno». Ma in questo momento nella regione a maggioranza curda retta dall'Amministrazione autonoma il principale incubo è la Turchia
di Chiara Cruciati e Giansandro Merli da il manifesto
AL HOL Una distesa di reti, grate e filo spinato taglia il deserto. Fuori, tutto intorno, ci sono le postazioni asaysh, la polizia dell’Amministrazione autonoma del Nord-est della Siria (Aanes). Più lontano vigilano le Syrian Democratic Forces (Sdf), la federazione di unità di autodifesa nata dalla rivoluzione del Rojava, il Kurdistan siriano. La terra è una piana di sfumature di giallo. Non cresce un albero. Dentro, nelle tende, vivono 39mila persone: al 95% donne e bambini, la maggior parte familiari dei miliziani dell’Isis e alcuni sfollati di guerra. I minori sono 24mila, i più piccoli sono nati dietro la recinzione e non hanno mai visto il mondo fuori. Alcuni di loro lanciano sassi verso i pulmini che sfilano all’esterno, altri fanno ciao con le mani, uno mostra l’indice destro: è il saluto dello stato islamico.
IL CAMPO DI AL HOL – 85 chilometri a sud di Qamishlo, capitale della regione a maggioranza curda – è «una bomba a orologeria», dice la direttrice della struttura Jihan Hanan. «Abbiamo avuto informazioni dagli alleati della coalizione internazionale (guidata dagli Usa, ndr) e dal governo iracheno che l’Isis sta pianificando qualcosa. Ma non sappiamo se un attacco dall’esterno o una rivolta all’interno», aggiunge. Parla davanti a una delegazione europea di giornalisti, deputati e amministratori locali. L’obiettivo è riportare l’attenzione internazionale su quello che accade nel Nord-est: dopo la caduta del regime di Assad riflettori e promesse di investimenti sono puntati solo su Damasco. Il campo, creato da rifugiati iracheni nel 1991 durante la prima guerra del Golfo, è tornato a riempirsi dopo la battaglia di Baghuz del marzo 2019. Quella che ha segnato la sconfitta militare dell’Isis e posto fine a Daesh come entità territoriale. «Il Califfato, però, continua a esistere come ideologia, come progetto da realizzare», dice Hanan. E proprio da Al Hol, secondo alcuni, dovrebbe nascere di nuovo. LE DINAMICHE che si sono ricreate nella tendopoli sono le stesse che per cinque anni hanno permesso alla creatura di al-Baghdadi di farsi stato: molte delle donne detenute non erano «solo» mogli e madri ma ingranaggi di quella macchina, responsabili di torture, polizia morale, addestramento. Tra il 2019 e il 2020 all’interno sono stati registrati 150 omicidi di abitanti del campo. Poi sono iniziati i blitz militari, sostenuti dalla coalizione, alla ricerca delle armi che continuano a entrare attraverso i camion e il personale locale che fa la spola ogni giorno. L’inferno di Al Hol è diviso in gironi: quello per i siriani, quello per gli iracheni e la sezione ancora oggi quasi inaccessibile dove si trovano i parenti dei foreign fighters che gli altri paesi non hanno voluto riprendersi. Complessivamente la popolazione si è ridotta, dopo aver raggiunto un massimo di 64mila presenze, ma nel 2024 solo 304 stranieri sono stati rimpatriati: oltre la metà in Kyrghizistan, poi in Russia, Turkmenistan e a seguire altre nazionalità. Quando l’8 dicembre 2024 è caduto il regime di Assad i siriani sfollati di guerra hanno festeggiato: per la prima volta dopo un decennio sperano nel ritorno a casa, che nei giorni scorsi l’Amministrazione autonoma ha detto di voler sostenere. Dal canto loro le famiglie dello Stato islamico hanno subito intravisto nella destabilizzazione dell’area una possibile via di fuga collettiva. «GLI STRANIERI erano convinti che in una settimana Al Jolani sarebbe venuto a liberarli», continua Hanan. Così si sono barricati nella sezione Annex: per dieci giorni hanno impedito alle Sdf di entrare e per una settimana alle ong di consegnare cibo e servizi. La «ribellione» è finita solo a causa della fame, ma il segnale è stato chiaro: le fazioni più radicalizzate vogliono approfittare del momento.
Il campo non è impermeabile. All’ingresso ci sono solo le Sdf e le asaysh, le forze di sicurezza interne, ma nessun metal detector. «Ogni giorno transitano 400 veicoli e migliaia di persone. Il contrabbando avviene così. È impossibile controllare tutto», afferma Hanan. Entrano armi, telefoni cellulari, denaro: a fare da corriere sono gli addetti locali delle organizzazioni che operano nel campo e chi consegna beni alimentari, costretti da minacce di morte delle milizie islamiste e da un po’ di soldi. IL DENARO CHE ENTRA serve anche al mantenimento dei familiari dei membri dell’Isis. Accanto alle tende della sezione, alla fine di una piccola salita, c’è una sorta di mercato all’aperto, baracchine di ferro tinteggiato di blu. Scatoloni di cartone, buste di patatine, sacchi di iuta sporcano il pavimento di sabbia gialla che corre giù fino alla tendopoli. Qui l’amministrazione del campo consegna frutta, verdura, riso, snack, lattine di ceci. «Arriva tutto da fuori, loro comprano quello che serve e cucinano da sé – ci dice un’operatrice -. I camioncini, però, non servono solo a far entrare dentro il campo, servono anche per le evasioni: le persone si infilano nelle cisterne dell’acqua o nei furgoncini dei commercianti e scappano». Altri tentano di rompere la recinzione, «ci provano quasi ogni notte». È la recinzione a cui rivolge lo sguardo un gruppo di bambini, nessuno ha più di dieci anni. Qualcuno è più giovane del campo di Al Hol: sono i bambini nati dai matrimoni tra adolescenti, forzati dalle famiglie e dalle loro gerarchie interne che replicano la modalità di gestione della comunità secondo Daesh. ALLE DONNE È AFFIDATO lo stesso compito che avevano fuori: mettere al mondo nuovi «cuccioli del califfato» e proseguire un’opera feroce di indottrinamento. Le famiglie si rifiutano di mandare a scuola bambini e ragazzini e gli inculcano l’unica «educazione» possibile, l’ideologia dell’Isis. Il resto lo fa quel limbo miserabile che è Al Hol: il gelo invernale, l’arsura estiva, le tende ingiallite, i libri che non ci sono, il mondo irraggiungibile, le ore e i giorni che si ripetono uguali a se stessi. L’Amministrazione autonoma sa che il campo è uno Stato islamico in miniatura. Per questo, da qualche anno, ha aperto due centri di rieducazione dove finiscono i maschi una volta compiuti i 12 anni. Vengono sottratti alle famiglie per interrompere il processo di indottrinamento e per impedire nuove nascite. Non è facile: le madri li nascondono, rendendo impossibile sapere con esattezza in quanti vivano nella sezione Annex.
«Sono centri per la deradicalizzazione – ci dice Sara, parte dell’amministrazione di Al Hol – e una sorta di case famiglia. Vivono là, hanno un alloggio e la mensa, un percorso educativo e uno sportivo, le aule e il campetto. Non arrivano tutti da Al Hol, alcuni provengono da Al Roj». È il campo gemello, l’altro centro di detenzione per membri e familiari dell’Isis. «Non sappiamo per quanto tempo ancora questi due campi dovranno restare aperti – continua Hanan – Gli sfollati devono poter tornare a casa e i foreign fighters vanno rimpatriati: gestire 40mila persone è un peso insopportabile per l’amministrazione». Questa, nel corso degli anni, ha ripetutamente chiesto alla comunità internazionale l’istituzione di un tribunale che giudichi gli affiliati allo Stato islamico, consapevole del dilemma etico e politico di imprigionare migliaia di persone senza processo. Nessuno ha mai accolto questa proposta. OGGI LA PREOCCUPAZIONE principale delle autorità della Siria del Nord-est sono gli attacchi turchi sul fronte lungo l’Eufrate dove gli F-16 di Ankara continuano a bombardare militari e civili nei pressi della diga di Tishreen e del ponte di Qaraqoz, a sostegno delle milizie islamiste raggruppate nell’Esercito nazionale siriano. Nonostante questo ennesimo sforzo militare, però, le Sdf hanno scelto di aumentare la presenza intorno ad Al Hol, la «bomba a orologeria» che rischia di esplodere.
nella foto: Una veduta del campo di Al Hol
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