Medio Oriente La Turchia è
vicina a un obiettivo perseguito per 13 anni: assumere il controllo del paese
vicino. Il presidente turco accoglie il neo-leader e promette collaborazione
militare ed economica e sostegno nella lotta all'esperienza democratica del
nord-est
di Murat Cinar da
il manifesto 5 febbraio 2025
Ieri, 4 febbraio, Ahmed
al-Sharaa (Mohammed al-Jolani), proclamato presidente del governo di
transizione in Siria, è arrivato ad Ankara su invito del presidente turco Recep
Tayyip Erdogan. È il suo secondo viaggio all’estero dopo l’Arabia saudita.
Al-Sharaa è stato trasportato dalla capitale Damasco ad Ankara con un aereo
della presidenza turca, poi Erdogan lo ha accolto nel palazzo presidenziale di
Bestepe. ALLA CERIMONIA UFFICIALE erano presenti anche il capo dei
servizi segreti, Ibrahim Kalın, il direttore della comunicazione della
presidenza, Fahrettin Altun, il consigliere capo per la politica estera e la
sicurezza, Akif Çagatay Kılıç, e il ministro degli Esteri, Hakan Fidan.
Alla fine dell’incontro a
porte chiuse, durato poco più di due ore, Erdogan e al-Sharaa si sono
presentati davanti alle telecamere per una conferenza stampa. Il presidente
turco ha ricordato le brutalità commesse dal regime baathista negli ultimi
tredici anni ed elogiato l’operato delle formazioni paramilitari che hanno
preso il controllo lo scorso dicembre. «Come abbiamo fatto in passato, anche
oggi e domani sosterremo il popolo siriano. Da circa due mesi lavoriamo
intensamente per ripristinare i rapporti e spero che le visite reciproche
continuino anche in futuro», ha dichiarato Erdogan, segnando ufficialmente
l’inizio di un percorso molto atteso.
Entrambi i leader, dice, sono
d’accordo su tutti i punti: «Soprattutto sulla lotta contro le organizzazioni
terroristiche e separatiste e i loro sostenitori, che occupano il nord-est
della Siria. Per ogni tipo di azione contro il terrorismo siamo pronti a
fornire alla Siria tutto il nostro sostegno», ha affermato Erdogan, riaprendo
così il capitolo Rojava. Il governo turco, sin dalla nascita dell’esperienza
del confederalismo democratico, ha sempre definito le forze politiche e armate
presenti nella regione come una «minaccia». Tra i temi discussi dai due leader
c’è stato anche quello dei centri penitenziari in Rojava, dove si trovano circa
novemila ex militanti dell’Isis, attualmente sotto il controllo delle Forze
Democratiche Siriane (Sdf) con il supporto dell’esercito statunitense. Erdogan
ha sottolineato che Ankara sarebbe pronta ad affiancare Damasco nella gestione
di questi centri.
Lo scorso mese, anche Michael
Kurilla, comandante generale del Comando combattente unificato delle forze
armate degli Stati uniti, durante una visita nella Siria del nord-est aveva
definito il tema «cruciale» per il futuro della regione. Inoltre, Erdogan ha
dichiarato che la Turchia è pronta a offrire ogni tipo di sostegno per
ripristinare le infrastrutture e ricostruire le città. Secondo il presidente
turco, questo percorso consentirebbe ai cittadini siriani presenti in Turchia
di rientrare nel loro Paese in modo più sereno. INFINE, HA INVITATO «il
mondo musulmano e arabo» a fornire il necessario sostegno alla Siria in questa
fase storica. Il neo presidente siriano ha tenuto un intervento più breve,
ricco di ringraziamenti nei confronti di Erdogan e della Turchia. Al-Sharaa ha
sottolineato che per Damasco il legame storico tra i due Paesi è
indimenticabile e ha ribadito la necessità di costruire una partnership
strategica in tutti i settori per il futuro, soprattutto in quello della
sicurezza. «Abbiamo analizzato le attuali minacce presenti nel nord-est e
quelle provenienti da Israele. Tel Aviv deve ritirarsi e rispettare i confini
del 1967», ha dichiarato al-Jolani. Infine ha ringraziato Erdogan per i piani
di sostegno alla ricostruzione della Siria e lo ha invitato a visitare presto
il Paese. A 13 anni dallo scoppio della guerra civile siriana, la Turchia si
avvicina al suo obiettivo: assumere il controllo del paese vicino.
*
Nord-est siriano, democrazia
in cerca di futuro
Resistenze Dalla diga di
Tishreen a Damasco, l'autonomia è a un bivio
di Chiara
Cruciati e Giansandro Merli da il manifesto
NORD-EST SIRIA Il primo convoglio è partito da Kobane alla
volta della diga di Tishreen l’8 gennaio. Di fronte aveva 76 chilometri e il
fuoco delle milizie filo-turche, la galassia salafita e islamista riunita sotto
l’appellativo di Esercito nazionale siriano (Sna). Auto e furgoncini si sono
messi in marcia per proteggere una diga che è molto più di una semplice
infrastruttura: è il punto che segna il passaggio a nord-est, il confine
invisibile tra la sopravvivenza del confederalismo democratico e l’occupazione
turca. Le marce, dalle comunità vicine e da quelle lontane, non si sono mai
interrotte. Da tre settimane, tra le colline boscose del nord, la popolazione
siriana presidia la diga con i propri corpi. Arrivano a piedi, si fanno forza
gridando «lunga vita alle Sdf, lunga vita alle Ypj», tributo alle Forze
democratiche siriane e alle Unità di autodifesa curde delle donne, prezioso
patrimonio di 13 anni di rivoluzione. Con le bandiere in mano si affollano
sull’impianto che attraversa l’Eufrate, 40 metri di altezza per sei turbine.
L’ex partito di regime Baath ne avviò la costruzione nel 1991 per fare il paio
con la diga più a sud, sul Lago Assad. Il rischio è altissimo. Dall’8 gennaio
24 civili sono stati uccisi a Tishreen dal fuoco sparato dai miliziani
filo-turchi e dai droni di Ankara. Tra le vittime anche tre operatori sanitari
del presidio medico permanente, tre ambulanze e un gruppo di infermieri e
paramedici. Almeno 221 i feriti, tra cui sette giornalisti. Gli attacchi dal
cielo hanno preso di mira le auto e i piccoli autobus, parcheggiati alla diga o
ancora in cammino, e messo fuori uso l’infrastruttura: centinaia di villaggi
sono a secco e al buio. «La diga è un’infrastruttura vitale per la popolazione
civile – ci spiega Hussein Othman, co-presidente del consiglio esecutivo
dell’Amministrazione autonoma del nord-est siriano – Fornisce acqua ed
elettricità a tutta la regione, per questo la gente è in prima linea». Un
impianto vitale tanto più in un contesto di isolamento: l’accerchiamento del
Rojava da parte della Turchia e l’embargo di fatto imposto da Ankara rendono la
regione quasi impermeabile al mondo esterno. Sono i paesi vicini a decidere
cosa entra o esce. Ogni risorsa naturale a disposizione è preziosa. «La gente
ha ribattezzato Tishreen diga della resistenza», dice Rojhelat Afrin, la
comandante delle Ypj. Ci accoglie in una base militare: «La linea del fronte è
dieci chilometri a ovest di Tishreen e, più a nord, del ponte Qaraqozaq. L’Sna
tenta di avvicinarsi e la Turchia colpisce dal cielo. Se i mercenari dovessero
raggiungere la riva orientale del fiume Eufrate, potrebbero arrivare a Taqba,
Raqqa, Kobane. La gente lo sa, la resistenza sta bloccando l’avanzata
islamista».
Dalla deposizione del
presidente Bashar al-Assad, l’8 dicembre 2024, l’unico fronte militare aperto
in Siria è questo. L’Sna, manovrato ed equipaggiato dalla Turchia, non si è mai
diretto a sud, verso Damasco. Dall’inizio dell’offensiva-lampo di Hayat Tahrir
al-Sham (Hts), il 27 novembre scorso, l’Sna ha guardato a oriente,
all’occasione sempre rimandata di prendersi – per conto di Ankara – l’intero
Rojava. Da allora, sono 51 i civili uccisi in tutta l’area, 245 i feriti. Il
massacro peggiore è del 25 gennaio, 12 vittime al mercato di Sirin. La via di
uscita sarebbe il cessate il fuoco con la Turchia, per salvaguardare la
popolazione civile e le conquiste del sistema democratico. L’altro fronte è
politico e guarda a sud, verso la capitale. La linea delle autorità del
Nord-est è chiara: apertura al dialogo con la nuova Damasco e al processo di
integrazione nazionale. Una disponibilità che può diventare effettiva solo a
certe condizioni. Toccano il rispetto delle prerogative democratiche, di un
certo grado di autonomia, dei diritti di donne e minoranze. I rappresentanti
dell’Amministrazione vogliono essere parte del processo costituente che
dovrebbe scrivere una nuova Carta. Al momento, però, l’unica questione sul
tavolo dell’unico incontro è stata militare. Il 30 dicembre Abu Mohammad Al
Jolani, neopresidente ad interim, ha ricevuto Mazloum Abdi, ministro della
Difesa del Nord-est e capo delle Sdf. «Stiamo tentando di risolvere le
questioni attraverso il negoziato con il nuovo governo. Non vogliamo separarci
ma essere riconosciuti. Siamo d’accordo a non dividere la Siria in più entità e
avere un unico esercito. I dettagli, però, arriveranno in futuro», ha
dichiarato lunedì scorso Abdi davanti a una delegazione internazionale. Alle
sue spalle la bandiera siriana con tre stelle rosse, simbolo del pre e post
Baath, e i vessilli delle Sdf/Ypg. È proprio nei «dettagli» del rapporto tra
Stato centrale e autonomia regionale, però, il cuore del problema. Il 19
gennaio il nuovo ministro della Difesa di Damasco Murhaf Abu Qasra, citato da
Reuters, ha respinto le richieste Sdf di partecipare all’esercito nazionale
come blocco. Devono «entrare nella gerarchia della Difesa ed essere distribuiti
in modo militare», ha detto. Sarebbe la fine della federazione di unità
combattenti, creata dai curdi ma a maggioranza araba, che tra 2014 e 2019 ha
sconfitto l’Isis e garantito l’autodifesa del confederalismo. «Insistiamo per
entrare nell’esercito come gruppo o brigata speciale, altrimenti la situazione
sarebbe peggio che sotto Assad. Butteremmo via tutta la nostra lotta», ha
risposto Rojhelat Afrin. La comandante ha lasciato intendere che le forze del
Nord-est puntano a un comando decentralizzato, almeno per ora. Perché, spiega,
«con un governo rappresentativo di tutti i siriani non avremmo problemi a
rispondere a un comando unico. Ma prima serve un processo democratico
inclusivo».
I segnali che arrivano dalla
capitale, però, vanno in direzione opposta. Nella cerimonia di insediamento di
Al Jolani le autorità del Nord-est non sono state invitate. C’era invece l’Sna.
Non sono loro la minaccia principale al confederalismo democratico, ma il
presidente turco Recep Tayyip Erdogan. Il suo esercito, il secondo della Nato,
preme da nord. Le milizie a lui affini attaccano da ovest. L’Hts, che prima
governava solo la regione di Idlib dove la lira turca è la moneta corrente,
governa a sud. La regione autonoma e il suo progetto di convivenza tra popoli,
di eguaglianza tra uomini e donne è nella morsa di Ankara, in una fase
particolare, di riavvio del dialogo tra la Turchia e il fondatore del Pkk,
Abdullah Öcalan, di cui a breve è atteso un messaggio: conterrebbe – dice Abdi
– «cose positive anche sulla Siria». Sembra quindi fondamentale che la
Coalizione internazionale anti-Isis, Stati Uniti e un po’ di Francia, non lasci
l’area. A dicembre il Pentagono ha reso noto che i militari statunitensi in
Siria sono 2mila. Resta da vedere cosa deciderà Trump. Voci su una prossima
smobilitazione paiono smentite. «Il team che lavora con noi ritiene che la
posizione Usa non cambierà», afferma Abdi.
Altra questione geopolitica
riguarda Israele. I suoi attacchi ai siti militari siriani dopo la caduta di
Assad hanno fatto comodo alle forze del Nord-est, che senza il vicino turco
risulterebbero quelle meglio attrezzate e organizzate. Sulla relazione con Tel
Aviv , però, gli ufficiali Sdf danno risposte evasive. «Non ci sono
comunicazioni», taglia corto il portavoce Abgar Daoud. L’impressione è che da
un lato pesino le politiche coloniali e genocidarie del governo israeliano,
dall’altro il fatto che quello potrebbe rimanere l’unico protagonista regionale
non ostile. Anche perché le differenze con la presidenza di Al Jolani non sono
legate alla contingenza o agli interessi di Ankara. Sono profondamente
politiche, quasi antropologiche. Dopo la rivoluzione a Nord-est tutte le
cariche importanti hanno due co-presidenti: un uomo e una donna. A Damasco
l’unica ministra donna, Aisha al-Dibs nominata su pressioni internazionali,
seguirà gli affari femminili. Le sue prime dichiarazioni sollevano dubbi: «Le
donne sono responsabili in primo luogo delle famiglie e dei mariti». Nella
regione autonoma, al contrario, le donne sono determinanti a livello militare e
politico. È per questo che la comandante Afrin sfida i nuovi padroni di
Damasco: «Siete pronti a nominare una donna a capo del ministero della
Difesa?».
*
Hamdan Al-Abed: «Al
contratto sociale non rinunceremo mai»
Intervista Uno dei membri
arabi del Consiglio esecutivo dell'Amministrazione autonoma (Daanes) racconta
la situazione nella sua città, Tal Abyad, e il precario equilibrio, anche
politico, nella Siria del nord-est
di Chiara Cruciati ( da RAQQA ) su il manifesto - 1 febbraio 2025
I membri del Consiglio
esecutivo sono seduti una accanto all’altro davanti al logo
dell’Amministrazione autonoma della Siria del nord-est (Daanes): intorno alla
mappa del paese, tagliata dal blu del fiume Eufrate, il nome dell’autonomia è
in tre lingue, curdo, arabo e siriaco. Donne e uomini, curdi, arabi, siriaci,
sono lì a raccontare – con la loro mera presenza – il senso più profondo del
progetto rivoluzionario. Rappresentante di una democrazia diretta, il Consiglio
esecutivo coordina il lavoro e le decisioni assunte dai comitati di base,
quelli che dai quartieri salgono su fino ai cantoni, passando per città e
villaggi. Tra loro c’è Hamdan al-Abed, vice co-presidente arabo del Consiglio,
il capo coperto da una kefiah bianca e la voce poderosa quando dice che «no,
non siamo separatisti, ma non rinunceremo al nostro contratto sociale. La
Daanes non è solo curda, né solo le Sdf. Io sono di Tal Abyad, occupata dai
turchi: sono uno sfollato, ho sofferto come gli altri, da arabo». Lo
intervistiamo a margine dell’incontro.
Qual è la situazione oggi
nella sua città, Tal Abyad?
È occupata dalla Turchia dal
2019. È passata da un sistema dispotico a un sistema di occupazione, in tutti
gli aspetti della vita, politici, economici, sociali. Nella mia città vivono
curdi, arabi, turkmeni, siriaci, armeni, ma le forze che ora la controllano
accettano un solo colore, quello turco. Gli armeni sono fuggiti in altre parti
della Siria, ma anche all’estero. Odiano anche noi arabi perché, dicono, non
sosteniamo il progetto neo-ottomano.
Ha ancora familiari lì? La
sua casa esiste ancora?
Io ora vivo a Raqqa, da
sfollato. La mia casa a Tal Abyad è stata occupata dalle milizie filo-turche.
Se scoprono qualcuno a chiamarmi o a comunicare con me, lo puniscono duramente.
Quanto è importante la
componente araba dentro le Sdf, le Forze democratiche siriane?
Almeno la metà delle Sdf e
della Daanes è araba. Abbiamo combattuto a Kobane sotto le Ypg e le Ypj, le
unità curde popolari e delle donne. Ogni persona deve combattere per la propria
esistenza: dovevamo e dobbiamo difenderci dal terrorismo. Non crediamo nel
separatismo, crediamo nella coesistenza di ogni componente della società,
etnica e religiosa.
Come vede il futuro delle
donne nella nuova Siria?
Nella Daanes le donne sono
presenti a ogni livello e in ogni settore, non intendiamo rinunciarci nel
dialogo che avremo con il nuovo governo di Damasco. Al momento non abbiamo
risposte: il ministero della difesa ha detto che le donne entreranno nell’esercito?
I nuovi leader hanno parlato di diritti delle donne? Andranno creati dei
comitati, militari, politici e sociali e le donne con le loro organizzazioni
dovranno partecipare, insieme agli esponenti di tutte le comunità della Siria.
La conferenza nazionale promessa, che dovrebbe discutere della futura forma di
governo, non è ancora partita, è presto per dire cosa accadrà. Di certo noi non
intendiamo dissolvere le Sdf fin quando non avremo rassicurazioni sul rispetto
dei diritti di tutti. Non ci sarà alcuna integrazione fino alla stesura della
nuova Costituzione.
*
Siria: Al Hol, la bomba che
ora rischia di esplodere
Reportage dal Nord-est della
Siria Visita al campo che ospita 40mila familiari dei jihadisti catturati dopo
la fine del Califfato. Un inferno con i suoi gironi - siriani, iracheni,
stranieri "rimossi" dai loro paesi - e dinamiche di un piccolo Stato
islamico. Pronto pericolosamente a risorgere. Parla la direttrice della
struttura Jihan Hanan: «Abbiamo avuto informazioni che l’Isis sta pianificando
qualcosa. Non sappiamo se un attacco dall’esterno o una rivolta all’interno».
Ma in questo momento nella regione a maggioranza curda retta
dall'Amministrazione autonoma il principale incubo è la Turchia
di Chiara
Cruciati e Giansandro Merli da il manifesto
AL HOL Una distesa di reti,
grate e filo spinato taglia il deserto. Fuori, tutto intorno, ci sono le
postazioni asaysh, la polizia dell’Amministrazione autonoma del Nord-est della
Siria (Aanes). Più lontano vigilano le Syrian Democratic Forces (Sdf), la
federazione di unità di autodifesa nata dalla rivoluzione del Rojava, il
Kurdistan siriano. La terra è una piana di sfumature di giallo. Non cresce un
albero. Dentro, nelle tende, vivono 39mila persone: al 95% donne e bambini, la
maggior parte familiari dei miliziani dell’Isis e alcuni sfollati di guerra. I
minori sono 24mila, i più piccoli sono nati dietro la recinzione e non hanno
mai visto il mondo fuori. Alcuni di loro lanciano sassi verso i pulmini che
sfilano all’esterno, altri fanno ciao con le mani, uno mostra l’indice destro:
è il saluto dello stato islamico.
IL CAMPO DI AL HOL – 85
chilometri a sud di Qamishlo, capitale della regione a maggioranza curda – è
«una bomba a orologeria», dice la direttrice della struttura Jihan Hanan.
«Abbiamo avuto informazioni dagli alleati della coalizione internazionale
(guidata dagli Usa, ndr) e dal governo iracheno che l’Isis sta pianificando
qualcosa. Ma non sappiamo se un attacco dall’esterno o una rivolta
all’interno», aggiunge. Parla davanti a una delegazione europea di giornalisti,
deputati e amministratori locali. L’obiettivo è riportare l’attenzione
internazionale su quello che accade nel Nord-est: dopo la caduta del regime di
Assad riflettori e promesse di investimenti sono puntati solo su Damasco. Il
campo, creato da rifugiati iracheni nel 1991 durante la prima guerra del Golfo,
è tornato a riempirsi dopo la battaglia di Baghuz del marzo 2019. Quella che ha
segnato la sconfitta militare dell’Isis e posto fine a Daesh come entità
territoriale. «Il Califfato, però, continua a esistere come ideologia, come
progetto da realizzare», dice Hanan. E proprio da Al Hol, secondo alcuni,
dovrebbe nascere di nuovo. LE DINAMICHE che si sono ricreate nella
tendopoli sono le stesse che per cinque anni hanno permesso alla creatura di
al-Baghdadi di farsi stato: molte delle donne detenute non erano «solo» mogli e
madri ma ingranaggi di quella macchina, responsabili di torture, polizia
morale, addestramento. Tra il 2019 e il 2020 all’interno sono stati registrati
150 omicidi di abitanti del campo. Poi sono iniziati i blitz militari,
sostenuti dalla coalizione, alla ricerca delle armi che continuano a entrare
attraverso i camion e il personale locale che fa la spola ogni giorno. L’inferno
di Al Hol è diviso in gironi: quello per i siriani, quello per gli iracheni e
la sezione ancora oggi quasi inaccessibile dove si trovano i parenti dei
foreign fighters che gli altri paesi non hanno voluto riprendersi.
Complessivamente la popolazione si è ridotta, dopo aver raggiunto un massimo di
64mila presenze, ma nel 2024 solo 304 stranieri sono stati rimpatriati: oltre
la metà in Kyrghizistan, poi in Russia, Turkmenistan e a seguire altre
nazionalità. Quando l’8 dicembre 2024 è caduto il regime di Assad i siriani
sfollati di guerra hanno festeggiato: per la prima volta dopo un decennio
sperano nel ritorno a casa, che nei giorni scorsi l’Amministrazione autonoma ha
detto di voler sostenere. Dal canto loro le famiglie dello Stato islamico hanno
subito intravisto nella destabilizzazione dell’area una possibile via di fuga
collettiva. «GLI STRANIERI erano convinti che in una settimana Al Jolani
sarebbe venuto a liberarli», continua Hanan. Così si sono barricati nella
sezione Annex: per dieci giorni hanno impedito alle Sdf di entrare e per una
settimana alle ong di consegnare cibo e servizi. La «ribellione» è finita solo
a causa della fame, ma il segnale è stato chiaro: le fazioni più radicalizzate
vogliono approfittare del momento.
Il campo non è impermeabile.
All’ingresso ci sono solo le Sdf e le asaysh, le forze di sicurezza interne, ma
nessun metal detector. «Ogni giorno transitano 400 veicoli e migliaia di
persone. Il contrabbando avviene così. È impossibile controllare tutto»,
afferma Hanan. Entrano armi, telefoni cellulari, denaro: a fare da corriere
sono gli addetti locali delle organizzazioni che operano nel campo e chi
consegna beni alimentari, costretti da minacce di morte delle milizie islamiste
e da un po’ di soldi. IL DENARO CHE ENTRA serve anche al mantenimento
dei familiari dei membri dell’Isis. Accanto alle tende della sezione, alla fine
di una piccola salita, c’è una sorta di mercato all’aperto, baracchine di ferro
tinteggiato di blu. Scatoloni di cartone, buste di patatine, sacchi di iuta
sporcano il pavimento di sabbia gialla che corre giù fino alla tendopoli. Qui
l’amministrazione del campo consegna frutta, verdura, riso, snack, lattine di
ceci. «Arriva tutto da fuori, loro comprano quello che serve e cucinano da sé –
ci dice un’operatrice -. I camioncini, però, non servono solo a far entrare
dentro il campo, servono anche per le evasioni: le persone si infilano nelle
cisterne dell’acqua o nei furgoncini dei commercianti e scappano». Altri
tentano di rompere la recinzione, «ci provano quasi ogni notte». È la
recinzione a cui rivolge lo sguardo un gruppo di bambini, nessuno ha più di
dieci anni. Qualcuno è più giovane del campo di Al Hol: sono i bambini nati dai
matrimoni tra adolescenti, forzati dalle famiglie e dalle loro gerarchie
interne che replicano la modalità di gestione della comunità secondo Daesh. ALLE
DONNE È AFFIDATO lo stesso compito che avevano fuori: mettere al mondo
nuovi «cuccioli del califfato» e proseguire un’opera feroce di indottrinamento.
Le famiglie si rifiutano di mandare a scuola bambini e ragazzini e gli
inculcano l’unica «educazione» possibile, l’ideologia dell’Isis. Il resto lo fa
quel limbo miserabile che è Al Hol: il gelo invernale, l’arsura estiva, le
tende ingiallite, i libri che non ci sono, il mondo irraggiungibile, le ore e i
giorni che si ripetono uguali a se stessi. L’Amministrazione autonoma sa che il
campo è uno Stato islamico in miniatura. Per questo, da qualche anno, ha aperto
due centri di rieducazione dove finiscono i maschi una volta compiuti i 12
anni. Vengono sottratti alle famiglie per interrompere il processo di
indottrinamento e per impedire nuove nascite. Non è facile: le madri li
nascondono, rendendo impossibile sapere con esattezza in quanti vivano nella
sezione Annex.
«Sono centri per la
deradicalizzazione – ci dice Sara, parte dell’amministrazione di Al Hol – e una
sorta di case famiglia. Vivono là, hanno un alloggio e la mensa, un percorso
educativo e uno sportivo, le aule e il campetto. Non arrivano tutti da Al Hol,
alcuni provengono da Al Roj». È il campo gemello, l’altro centro di detenzione
per membri e familiari dell’Isis. «Non sappiamo per quanto tempo ancora questi
due campi dovranno restare aperti – continua Hanan – Gli sfollati devono poter
tornare a casa e i foreign fighters vanno rimpatriati: gestire 40mila persone è
un peso insopportabile per l’amministrazione». Questa, nel corso degli anni, ha
ripetutamente chiesto alla comunità internazionale l’istituzione di un
tribunale che giudichi gli affiliati allo Stato islamico, consapevole del
dilemma etico e politico di imprigionare migliaia di persone senza processo. Nessuno
ha mai accolto questa proposta. OGGI LA PREOCCUPAZIONE principale delle
autorità della Siria del Nord-est sono gli attacchi turchi sul fronte lungo
l’Eufrate dove gli F-16 di Ankara continuano a bombardare militari e civili nei
pressi della diga di Tishreen e del ponte di Qaraqoz, a sostegno delle milizie
islamiste raggruppate nell’Esercito nazionale siriano. Nonostante questo
ennesimo sforzo militare, però, le Sdf hanno scelto di aumentare la presenza
intorno ad Al Hol, la «bomba a orologeria» che rischia di esplodere.
nella foto: Una veduta del
campo di Al Hol
leggi anche:
Nord-est
Siria, la rivoluzione negli ospedali
Siriani
in fuga dal Libano per tornare tra le macerie