10 gennaio 2025

Iran: Le donne curde a Evin pagano il prezzo più alto

 «Donne, vita, libertà» contro la repressione. Moradi, Azizi e Jalalian, dopo confessioni estorte, sono state condannate a morte

di Ester Nemo *

Dalle proteste del 2022 in seguito all’omicidio di Masha Amini da parte della polizia morale iraniana la popolazione carceraria nel braccio femminile della prigione di Evin è in aumento costante. Impossibile ottenere dati specifici su quante donne siano al momento detenute nel carcere dove la giornalista italiana Cecilia Sala è rinchiusa dal 19 dicembre, ma è certo che la risposta della repressione iraniana alle enormi manifestazioni di piazza condotte al grido in lingua curda di «Jin, jiyan, azadi» («Donna, vita, libertà») è stata procedere con numerosi arresti esemplari per scoraggiare un movimento rivoluzionario femminile partito dal Kurdistan in grado di aggregare in Iran decine di migliaia di donne.

Le attiviste curde in questo contesto soffrono di una somma di discriminazioni letale: sono donne, sono politicamente e socialmente attive e appartengono a una minoranza etnica che, assieme a quella del Balocistan, è tra le più represse del panorama iraniano. Sono tra le donne con più difficoltà ad avere accesso all’istruzione e a vedere i propri diritti fondamentali rispettati sia in libertà sia, soprattutto, nelle istituzioni carcerarie come quella di Evin.

Un dossier recentemente stilato dall’Ufficio d’informazione del Kurdistan in Italia (la onlus Uiki) fa luce sulla storia e sulle condizioni carcerarie di tre tra le tante donne curde attualmente rinchiuse nella prigione di Evin: Verishe Moradi, attivista arrestata nel 2023; Pakshan Azizi, assistente sociale e femminista arrestata nell’agosto del 2023; e Zeinab Jalalian, attivista arrestata nel 2008. Tutte e tre sono state condannate alla pena di morte.

L’iter giudiziario di Moradi, Azizi e Jalalian segue un copione comune a centinaia di donne arrestate dalle autorità iraniane: accuse gravissime – «diffusione di propaganda» o «ribellione contro il governo» – formulate senza prove, niente accesso tempestivo a legali, confessioni fasulle estorte con torture fisiche o psicologiche.

Il caso di Moradi è emblematico: arrestata nell’agosto del 2023, ha potuto incontrare il proprio avvocato solo al termine della fase di interrogatorio in cui, secondo quanto riporta Uiki, è stata costretta a rilasciare una confessione scritta sotto minaccia e pressioni psicologiche. Confessione poi usata contro di lei in tribunale.
Secondo il Kurdistan human rights network (Khrn), poco dopo l’arresto Moradi è stata portata nel carcere di Evin, dove per cinque mesi è stata rinchiusa in una cella in isolamento. Dal maggio del 2024, sempre secondo Khrn, le autorità carcerarie non le permettono alcuna visita di amici o familiari.

Nel novembre del 2024 il Tribunale rivoluzionario di Teheran l’ha condannata a morte nonostante Moradi abbia più volte dichiarato che le accuse contro di lei erano infondate e che la sua confessione era stata estorta sotto costrizione.

La sua condanna ha portato a numerose proteste e scioperi della fame sia in Iran sia all’estero e ha spinto numerose organizzazioni per i diritti umani, tra cui Amnesty international, a chiederne immediatamente la revoca.

nella foto: Una donna nel carcere di Evin     * da il manifesto – 31 dicembre 2024

                                                               *

Iran : Confermata la condanna a morte per l’attivista curda Pakhshan Azizi

Continua la repressione della dissidenza nella Repubblica islamica. Pena capitale ad Azizi confermata dalla Corte suprema mentre Cecilia Sala veniva liberata

di Francesca Luci *

La cella, la piccola finestrina in alto, il raggio di luce, l’insonnia, l’auto-rimprovero e quel martellio del pensiero, diventeranno un ricordo nella memoria di Cecilia Sala. Il carcere di Evin rimarrà là, imponente, con i suoi abitanti, con le loro storie e dolori, con centinaia di intellettuali, scrittori, giornalisti, artisti e attivisti colpevoli delle loro idee, col grigio del carcere che tenta di sbiadirne i colori. Per loro il dramma si consuma anche dopo la liberazione: rinunciare o rischiare di tornarci. Chi abbandona il paese salva la voce ma porta con sé la ferita del taglio delle radici, che non si rimarginano mai.
I molti attivisti e giornalisti iraniani gioiscono insieme all’Italia per la liberazione di Cecilia Sala, ma sanno che la strada per l’affermazione della libertà di parola e di opinione nel loro paese è lunghissima e piena di insidie. Scrivere sull’Iran e sulla Repubblica islamica non è mai stato facile, né per chi risiede nel paese né per chi non si accontenta di rimanere dietro la sua scrivania e osservare il paese da lontano. Per fortuna, nonostante tutto, nel panorama dell’informazione e dell’arte iraniana palpitano numerosi talenti che fanno salti mortali per conservare la loro integrità morale, essere critici e onesti senza cadere nella rete della censura del sistema.

Ma alcuni rischiano di non tornare più. Quando Cecilia Sala lasciava il carcere di Evin dopo 21 giorni di prigionia, arrivava la notizia che la Corte suprema aveva confermato la condanna a morte di Pakhshan Azizi, attivista per i diritti delle donne e assistente sociale. Azizi era stata condannata dal Tribunale rivoluzionario di Teheran il 24 luglio con l’accusa di «ribellione armata contro lo Stato» e per il suo coinvolgimento in gruppi di opposizione al regime. L’accusa di appartenenza ai gruppi separatisti curdi o beluci è ripetutamente utilizzata dai tribunali iraniani per non provocare empatia tra la popolazione.
Azizi, nata a Mahabad, nell’Iran nord-occidentale, fu arrestata per la prima volta nel 2009 durante una manifestazione di protesta degli studenti curdi dell’Università di Teheran contro l’esecuzione di un prigioniero politico curdo. Dopo quattro mesi di detenzione fu rilasciata su cauzione. All’epoca era una studentessa di scienze sociali presso l’Università Allameh Tabatabai di Teheran. In precedenza aveva collaborato con associazioni non governative attive nel campo sociale e in quello delle problematiche relative alle donne.
Nel 2008 faceva parte di un gruppo che conduceva ricerche e studi sul tema della «circoncisione femminile». Insieme a un gruppo di attivisti per i diritti delle donne nel Kurdistan iracheno, e in collaborazione con alcune ong e il governo della regione del Kurdistan, raccoglie informazioni significative su questo tema. Si trasferì nel Kurdistan iracheno dopo aver completato gli studi e iniziò a collaborare con associazioni femminili coinvolte nelle attività sociali. Nell’autunno del 2014 si recò nel nord della Siria, nella città di Qamishli, per prestare aiuto nei campi dei rifugiati, assistendo donne e bambini traumatizzati.

Nell’estate del 2023, dopo circa dieci anni, tornò in Iran per incontrare la sua famiglia. La mattina del 5 agosto fu arrestata insieme al padre e a altri due membri della sua famiglia. Fu sottoposta a interrogatori presso l’intelligence detention center prima di essere trasferita al reparto 209 della prigione di Evin e successivamente al reparto femminile. In una sua lettera pubblicata dai media Kurdpa riferì che le avevano legato le mani dietro la schiena e le avevano puntato un’arma alla testa.
Nessuna delle obiezioni sollevate riguardo al suo caso ha ricevuto attenzione dalla Corte suprema, scrive l’avvocato dell’attivista Reisiian: «La Corte non ha preso in considerazione che le sue attività nel nord della Siria, nei campi dei rifugiati di Shengal e in altri campi dei rifugiati della guerra contro Isis, sono state azioni pacifiche, senza alcun aspetto politico, finalizzate ad aiutare le vittime degli attacchi di Isis», conclude l’avvocato.
Il premio Nobel per la pace Narges Mohammadi, in congedo per malattia dal carcere di Evin, ha scritto sul suo account Instagram: «Con l’esecuzione di una “donna prigioniera politica” il regime vuole punire il movimento di Donna, Vita, Libertà. Gli iraniani, i sostenitori della libertà in tutto il mondo, le organizzazioni internazionali per i diritti umani e le Nazioni unite devono unirsi contro la politica delle esecuzioni. È nostro dovere non rimanere in silenzio».

nella foto: Pakhshan Azizi

* da il manifesto – 10 gennaio 2025

leggi anche: Il regime debole e la diplomazia degli ostaggi

6 gennaio 2025

Gli Usa leader nell’esportazione di Gnl ma solo grazie al fracking


di Luca Martinelli *

Tutto sui fossili - Importatori netti di gas liquido fino al 2015, gli Stati uniti hanno invertito il trend a discapito dell’ambiente. L’Italia sta investendo per diventare hub di transito e consumo.

 La chiusura del gasdotto tra Russia ed Europa attraverso l’Ucraina ha acceso un faro utile a cogliere come sta cambiando il mercato del gas: nel 2024, gli Usa hanno esportato ben 88,3 milioni di tonnellate metriche di gas naturale liquefatto (Gnl), in aumento del 4,5% rispetto al 2023. È un mercato in cui il Paese è leader e, con tutta probabilità, lo resterà dopo l’insediamento alla presidenza di Donald Trump, in programma il 20 gennaio: un governo negazionista, che sarebbe pronto a uscire nuovamente dall’Accordo di Parigi sul clima, non potrà che continuare a spingere sulle fonti fossili.

A dicembre 2024, tra l’altro, l’export Usa di Gnl ha raggiunto livelli quasi record, salendo a 8,5 milioni di tonnellate metriche, anche grazie all’avvio di due nuovi impianti. E poco importa se la letteratura scientifica certifichi che «l’impronta di gas serra» del Gnl come fonte di combustibile è del 33% superiore a quella del carbone, da sempre considerato come il più «sporco» tra i combustibili fossili. L’espansione del gas naturale liquefatto dipende anche dal sostegno delle banche, che continuano a pompare finanziamenti illimitati nel settore: fra il 2021 e il 2023, secondo il report «Frozen gas, boiling planet», a livello globale sono stati concessi al settore finanziamenti per 213 miliardi di dollari. Le banche italiane hanno fornito 6 miliardi di dollari, senza preoccuparsi che il trasporto di gas liquefatto (che arriva anche in Italia, a Piombino, a La Spezia, presto anche a Ravenna) aumenta il rischio di fuoriuscita di metano, cioè di un gas serra che è in media 80 volte più potente dell’anidride carbonica in un periodo di 20 anni.

L’espansione del Gnl avviene nonostante le proiezioni dell’Agenzia internazionale per l’Energia mostrino una sovracapacità del settore: a volerlo sono società petrolifere e del gas, come Eni, TotalEnergies e QatarEnergy, specialisti del Gnl come Venture Global e anche società di servizi, come Enel, che hanno in programma un’espansione massiccia delle loro attività, con 156 nuovi terminali entro il 2030. Secondo Justine Duclos-Gonda, attivista di Reclaim finance, «le compagnie petrolifere e del gas stanno scommettendo sui progetti di Gnl, ma ognuno dei loro progetti mette in pericolo il futuro dell’Accordo di Parigi. Le banche affermano di sostenere le compagnie petrolifere e del gas nella transizione, invece stanno investendo miliardi di dollari in future bombe climatiche. Il Gnl è un combustibile fossile e non ha alcun ruolo da svolgere in una transizione sostenibile. Le banche devono assumersi le loro responsabilità e smettere immediatamente di sostenere gli sviluppatori di Gnl e i loro terminali di esportazione».

Il rapporto accende un faro sugli Usa: nel maggio 2024, gli investitori statunitensi rappresentavano il 71% degli investimenti totali nell’espansione del gas liquefatto, con i fondi BlackRock, Vanguard e State Street in testa. Insieme questi tre soggetti (che raccolgono anche in Italia i risparmi di milioni di persone) sono responsabili del 24% di tutti gli investimenti nell’espansione del Gnl. Anche per questo, dei 156 nuovi terminali in corso di realizzazione o progettati da qui al 2030, destinati a collegare i mercati di produzione ed esportazione con quelli d’importazione (come il nostro), oltre il 50% della nuova capacità di export si concentra negli Usa, in Canada e in Messico.

Alcune ricerche universitarie, però, dimostrano che dal 2005 a oggi se gli Stati Uniti hanno a disposizione gas da esportare, ciò è dovuto principalmente all’aumento della produzione usando la tecnica del fracking, per ottenere quello che viene chiamato shale gas, gas di scisto: gli Usa, importatori netti di gas naturale dal 1985 al 2015, dal 2016 sono esportatori netti. Una leadership di mercato che ha un forte impatto ambientale, dato che il fracking (fratturazione idraulica) è molto oneroso in termini di emissioni. Eppure, ieri c’è stato chi ha voluto ricordare che anche l’Italia avrebbe dovuto sfruttare fino in fondo tutti i giacimenti di gas, anche quelli più delicati, anche usando tecniche come il fracking: «La nostra follia è stata scegliere di non usare il gas che potremmo estrarre nel nostro paese, e che col referendum del 2016 abbiamo deciso di non usare. Questo è il vero fallimento del sistema paese» ha affermato in un’intervista Davide Tabarelli, presidente Nomisma Energia.

nella foto: Rifle (Colorado, Usa), operazioni di fracking 

* da il manifesto - 4 Gennaio 2025

29 dicembre 2024

Ombre scure sull’ Occidente: da destre e sinistre poche idee su come fare luce

di Massimo Marino

Si è calcolato che nell’anno che è al termine circa 4 miliardi di persone sono state coinvolte in scadenze elettorali di rilievo. Difficile fare una sintesi dei risultati e dei cambiamenti più rilevanti per il futuro del pianeta.  Azzardo tre conseguenze di questa travagliata annata, che possono avere effetti di lungo periodo per noi e per le future generazioni. Conseguenze che rendono evidente la inadeguatezza delle forme della politica ereditate dal secolo scorso: sia fra destra e sinistra in affannato bipolarismo in tutto l’Occidente ed in alcune altre aree del pianeta, sia fra bande etniche o religiose in competizione in molti altri paesi. Forme che sembrano inadeguate  per molti  e ci impongono di trovare nel nuovo secolo  strade virtuose per costruire una  alternativa riformatrice:

1) La forma prevalente di soluzione dei dissidi o delle tensioni fra nazioni,  gruppi etnici o religiosi, soggetti economici multinazionali, correnti politiche organizzate, sembra orientarsi sempre più verso l’uso dell’ insulto, della violenza e della forza, fino all’estremo delle guerre e guerriglie  locali e regionali. Sempre minore è  la ricerca della convivenza e della soluzione pacifica dei conflitti. La conseguenza più evidente è il declino dell’ONU, l’antidoto inventato dopo la tragica esperienza della seconda guerra mondiale che ha causato 68 milioni di morti per quasi due terzi civili. L'organizzazione internazionale nacque con l’accordo di tutte le nazioni  nel 1945 per mantenere la pace e la sicurezza internazionale, favorire relazioni amichevoli tra le Nazioni e favorire migliori condizioni di vita, di progresso sociale e dei diritti umani. (1) 

A fine anno si contano invece 56 conflitti armati di rilievo nel mondo fra i quali 6 hanno provocato nell’anno in corso almeno 10mila morti. Oltre quello russo-ucraino e arabo-israeliano,  la guerra civile in Sudan, quella in Myanmar, quella nel Maghreb-Shael (Mali, BurkinaFaso, Niger e altri ). Per ultimo fra i più rilevanti la guerra della droga contro i Cartelli in Messico ( Sinaloa e Jalisco )  con decine di migliaia di morti solo negli ultimi anni. Pochissimi ormai i casi di conflitti locali che si risolvono con accordi di pace stabili. I conflitti tendono a diventare cronici, ad allargarsi, aumentare il livello tecnologico delle armi a disposizione e il numero di armati coinvolti. I profughi in fuga in questo anno che non hanno più una residenza stabile sono difficili da valutare ma di certo sono superiori ad almeno 100 milioni di persone.

2) Mentre gli effetti della crisi climatica ed in generale dell’inquinamento del pianeta sembrano accentuarsi, il peso di organismi, associazioni, movimenti politici che hanno la conversione ecologica e la tutela del pianeta come obiettivi prioritari sembra essere in declino, forse non tanto per l’attacco delle lobby e dei cosiddetti negazionisti che hanno scarso peso, ma quanto per la mancanza di elaborazione e proposte concrete ed adeguate ad ottenere almeno in Occidente il consenso, anche elettorale, necessario per cambiare paradigma. Come conseguenza nell’ultimo anno si è rafforzato l’attacco mediatico ostile dei soggetti economici interessati allo status quo, fino all’aggressione dei difensori dell’ambiente che in varie aree del pianeta ( Asia, Africa, America latina) arriva all’eliminazione fisica degli attivisti della tutela ambientale, e comunque all’aperta contestazione e opposizione a qualunque forma di conversione.

3)  Si accentua nel mondo lo squilibrio economico fra gruppi ristretti che aumentano la loro quota di ricchezza posseduta e  il livello di povertà della maggioranza. Sistemi elettorali iniqui facilitano lo squilibrio, si diffondono forme di presidenzialismo che consegnano il potere ad un manipolo  di miliardari che occupano direttamente lo Stato, controllano i media in prima persona, piegano partiti e istituzioni alla tutela degli interessi di pochi. C’è chi sostiene che “ la crisi della democrazia liberale ha raggiunto un punto tale da rendere quasi indistinguibile il confine tra democrazia e autoritarismo”. Il dato sconfortante degli ultimi anni è infatti che molte figure istituzionali o presidenziali assumono crescenti caratteristiche autoritarie abbandonando qualunque parvenza democratica. La rappresentanza elettorale iniqua favorisce la tendenza all’astensionismo rinunciatario, l’ultima forma di ribellione, segnale di sfiducia e di assenza di una possibile rappresentanza reale che sia affidabile.

                                                    *

Le elezioni in USA

Un sistema elettorale che da 240 anni impone un forzoso bipolarismo e impedisce qualunque pluralismo e rappresentanza proporzionale ha raggiunto il culmine del degrado. Le elezioni di novembre sono costate circa 1 miliardo di dollari per Trump e 1,5 per la Harris, mentre altri 3-4 candidati non avevano alcuna possibilità di accesso né ai media nazionali, né all’insieme dei collegi, né al voto per posta. A differenza dell’ alta partecipazione al voto del 2020 che permise a Biden di prevalere su Trump, i votanti sono scesi da 158,4 a 151,2 milioni ( Nel 2016 nella sfida Trump - Hillary Clinton erano stati 137 milioni).  Rispetto al 2020 nel novembre scorso Trump ha ottenuto nel voto popolare 1,6 milioni di voti in più di quelli del 2020  ( da 74,2 a 75,8 ) mentre la Harris ha avuto circa 8,4 mil. in meno di Biden nel 2020 ( da 81,3 a 72,9 ). Con 3 milioni di “ voti popolari” in più, assolto di fatto per i fatti di Capitol Hill, con il pieno controllo di Camera, Senato e Corte Suprema, sostenuto da un manipolo di miliardari e personaggi dell’estremismo politico destrorso, con un sistema politico nel paese sempre più  miserrimo, c’è chi ha definito gli USA “ un paese del terzo mondo, con una potenza militare egemone e un sistema politico ridicolo e desolante”. Trump questa volta cerca di azzerare l’intero apparato istituzionale politico americano. Nessuno oggi è in grado di valutare fino a dove e in che direzione  si spingerà nel suo imprevedibile estremismo, quanto si discosterà, nella politica estera, nei diritti civili e sociali e nella già precaria sensibilità ambientale, dai suoi diversi predecessori e dalla tradizione del bipolarismo americano. Difficile fare più danni dei Democratici, specie sul clima e nella politica estera, ma Trump ci proverà.     

La Transizione ecologica è la madre delle riforme

Come era ormai largamente prevedibile la COP 29 a Baku, definitivamente occupata e gestita dai petrolieri, con l’assenza di numerosi capi di stato o di governo,  ha chiuso definitivamente qualunque possibilità di usarne il dibattito come occasione di confronto sul futuro del pianeta. Dopo Sharm El Sheik (COP27) e Dubai (COP28)  sarebbe stata necessaria l’organizzazione in uno dei principali paesi inquinatori  dell’Occidente di una COP Alternativa per approfondire proposte e percorsi di una Transizione ecologica che riguarda per primi i paesi occidentali. Per quanto in molti ne parlino la transizione oggi non è sostenuta neppure dagli ecologisti  con proposte chiare all’altezza dello scontro politico che ha un carattere planetario. I difensori dello status quo, sostenuti o tollerati con poche sfumature di diversità da gran parte delle destre e delle sinistre, tendono a impedire qualunque reale alternativa all’uso delle fonti fossili, a ostacolare la decarbonizzazione, a rallentare la potenziale egemonia economica delle rinnovabili. Pur di contrastare la transizione, la riforma centrale dei prossimi decenni nel mondo, si torna addirittura a riproporre l’uso della fonte nucleare ormai destinata alla scomparsa per la sua insostenibilità economica oltre che per il rischio ambientale. Oppure si ripesca gli argomenti del negazionismo climatico, rassicurante per gli sprovveduti ma allettante per le lobby perché porta a concludere che va tutto bene e quindi non c’è da mettere in discussione nulla. In aggiunta alle COP di fatto è vietato discutere di mobilità perché l’Automotive ha saturato almeno tutto l’Occidente, barcolla ma è intoccabile, ed anzi dopo la crisi del COVID insieme ad altri soggetti ha imparato ad accumulare impunemente superprofitti mai ottenuti in passato ( come nell’energia, negli armamenti, nella speculazione finanziaria e bancaria, nei farmaci e vaccini).

Sembra impossibile mettere in discussione la centralità dell’auto. L’obiettivo non è solo quello di  mantenere l’uso dei motori a combustione e dell’auto come principale vettore  ancora per decenni ma di mantenere elevato il livello degli utili dei vettori e  dei carburanti con detassazioni e contributi pubblici. Di fatto anche molti ambientalisti sono in una condizione subordinata. Perlopiù difendono l’elettrificazione della attuale mobilità individuale ( le cosiddette auto elettriche ) invece di battersi per l’estensione delle reti pubbliche, collettive, allargate, di trasporto metropolitano su percorsi dedicati, separati e prevalenti. Servirebbero alcune migliaia di km di metropolitane,  ancora assenti o minimali in centinaia di aree urbane medie e grandi. Servirebbe riportare il verde dentro le città e rimuovere ovunque possibile asfalto, bitume, catrame e cemento, servirebbe aumentare le zone pedonali e fluidificare il traffico privato ridimensionato in corsie dedicate e separate. I limiti di velocità a 30 all’ora sono un palliativo inventato da qualche sindaco furbastro per far felici con poco gli ambientalisti e per nascondere il mancato cambio di paradigma che rimane fisso sull’auto. Nello stesso modo la produzione energetica da rinnovabili è assente su centinaia di milioni di tetti, capannoni, aree agricole incolte. Ne viene ridimensionata la convenienza economica con il freno delle autorizzazioni per eolico e fotovoltaico ( che disturberebbero il paesaggio ) mantenendo gas, olio combustibile e carbone e costringendo l’utente finale a  pagare in ogni caso i suoi consumi  al prezzo più alto, quello del gas.

La crisi politica in Germania

Nella crisi generale che coinvolge gran parte dell’Occidente e sembra condannare al declino e all’ irrilevanza la sua parte europea, la crisi politica che porterà alle elezioni anticipate in Germania del 23 febbraio mi sembra particolarmente preoccupante per diverse ragioni: è di fatto il paese più grande dell’Unione Europea, apparentemente il più avanzato sul difficile percorso della transizione ecologica e dell’equità sociale, forse con il migliore e più libero  sistema elettorale del mondo con il quale ha sperimentato forme virtuose di stabilità politica. Ha gestito la fuoriuscita dal nucleare, attuato un decente sistema di accoglienza e di integrazione di milioni di immigrati. Da anni ha un sistema politico consolidato con una rassicurante presenza pluridecennale di movimenti molto attivi e di un consistente partito verde che fino a ieri ha di fatto occupato un ruolo di peso nello schieramento politico. Ha contenuto più di altri la spesa per gli armamenti e la presenza militare all’estero. Eppure la coalizione semaforo a tre (Socialdemocratici, Verdi e Liberali) non ha retto alle contraddizioni interne e la presenza dei Verdi ( con 5 ministri su 12 nel governo) non è stata in grado di imporre una svolta di alternativa e  di riforme che consolidasse il sostegno popolare. Come i 5stelle in Italia e Podemos in Spagna nel coinvolgimento al Governo, imbrigliati in coalizioni indigeste, subendo inerti la guerriglia mediatica mentre nel paese si attendono comunque cambiamenti radicali ma insieme sicurezza ed efficienza, la politica del temporeggiare si paga con la perdita del sostegno della parte più attiva dei propri sostenitori. L’implosione in atto nei Grünen, dopo almeno cinque decenni di storia, avrà effetti dirompenti sull’intero scenario europeo.

Il movimento 5Stelle non si muove più

A differenza di altri paesi l’Italia vive una singolare situazione politica che vede governare una coalizione di cdx nettamente minoritaria nel paese ma stabile ed egemone perlopiù per il continuo crescere dell’assenteismo e per il comune intento della destra e della sinistra di mantenere a qualunque costo un rigido assetto politico bipolare. Intento che presuppone la cancellazione o almeno il ridimensionamento fino all’irrilevanza del terzo polo fino a ieri  rappresentato dal M5Stelle che per almeno 5 anni ( 2014-2019) aveva di fatto imposto l’agenda politica del paese ed aveva anche iniziato con Torino, Roma e alcuni altri Comuni di rilievo nel 2017, la conquista di amministrazioni locali di peso. Le 12 elezioni regionali degli ultimi 2 anni indicano invece il consolidarsi di un assenteismo che chiamerei in parte “ militante” e che è valutabile oggi a 24-26 milioni di elettori su circa 50 milioni totali. Il CDX alle politiche del settembre 2022 ha ottenuto meno di 12,5 mil di voti ( circa 25 elettori su 100 ) mentre le variegate “ forze di opposizione “ quasi 16 mil. di voti. In pratica il vero vincitore è stato il rosatellum, in particolare con la sua quota di collegi uninominali. Si pensi che in varie  altre occasioni il CDX ha avuto risultati ben migliori, fino al 2008 quando l’alleanza Popolo delle Libertà e Lega hanno ottenuto 17,4 mil di voti su 47,3 totali ( 37 elettori su 100), senza contare 2 mil di voti dell’UDC. Nelle ultime scadenze regionali anche il CDX inizia a subire un moderato ridimensionamento ma minore del CSX ed in particolare del declino progressivo del M5S che sia  da solo che in alleanza da sei anni  continua ad alimentare gradualmente l’astensionismo. I votanti totali sono stati 35 mil. nel 2018 poi 29,2 nel 2022. Il M5S da circa 11 mil di voti del marzo 2018 è arrivato ai 4,5 mil del settembre 2022. Difficile valutare se ad oggi il M5S possa superare i 4 mil di voti in una scadenza nazionale. Nelle europee del giugno 2024 è rimasto al di sotto dei 2,5 mil.. Il M5Stelle in sei anni ha perso circa 7 mil. di voti. A mio parere si sono  ridistribuiti ad altri partiti non più di un quarto di questi voti. Almeno 5 mil. di elettori  del 2018 hanno smesso di votare 5stelle e non hanno votato nessun altro, la competizione tende  a zero. La delusione sembra dovuta prevalentemente all’abbandono da parte degli eletti degli obiettivi promessi ma mancati nelle diverse esperienze di governo  e dalla inaffidabilità di molti eletti che per una supposta convenienza personale (che alla prova dei fatti non si è per la verità prodotta), hanno cambiato partito.

Mi sembra però che la sensazione che si è diffusa è che i 5stelle, ma anche i loro alleati o competitori specie  della sinistra non abbiano in realtà  una opinione precisa ed efficace su parecchie questioni vitali: il sistema elettorale, i migranti e la sicurezza, i bassi salari e la povertà, l’evasione fiscale e gli extraprofitti. Temi sui quali la destra specula abilmente, la sinistra nelle sue varie sfumature è ferma da tempo ed è singolare che anche i 5 stelle su alcuni di questi temi siano assolutamente fermi e a rimorchio degli altri.

Molti dei cambiamenti ottenuti negli anni passati sono stati annullati o sono in fase di demolizione da destra e sinistra insieme in accordo più o meno esplicito ( reddito di cittadinanza, bonus a valenza ambientale, indennità e finanziamento della politica e dei media, freno alle spese militari, maggiore autonomia  da USA e Nato, corruzione e giustizia).

Il salario minimo, che avrebbe coinvolto 4-5 milioni di precari super sfruttati, proposto già dal 2015 con la prima versione del Reddito di Cittadinanza,  con il benevolo appoggio della Confindustria è stato prima boicottato da PD e Sindacati ( indimenticabili gli attacchi al RDC  di Landini e di almeno due segretari del PD)  quando era possibile avviarlo, poi ripescato nel momento in cui tanto non era più possibile imporlo.

Si aggrava invece il disimpegno nella sanità pubblica iniziato dal 2010. Di fatto, tranne un peggioramento con i governi Renzi e Letta e un lieve miglioramento con il Conte I, a parte l’anno del Covid praticamente la spesa sanitaria unitaria aggiornata all’inflazione ( ha un senso misurarla per abitante e non rispetto al PIL come va di moda ) è stata pressoché costante con una lenta tendenza a decrescere da più di 10 anni in modo indipendente dai governi e dai ministri di destra o di sinistra come ci ha confermato ancora di recente il rapporto annuale Gimbe. Lentamente in una decina di anni si sarebbero sottratti al SSN almeno 37 mld. Oggi servirebbero almeno 10-12 mld di maggiore  impegno annuale nel SSN  ( che si aggira sui 130-134 mld) praticamente recuperabili solo frenando la privatizzazione e con  interventi consistenti di bilancio su extraprofitti nel settore energetico e bancario, spesa militare, evasione fiscale, aliquote fiscali. Settori dove mi sembra si stia andando esattamente nella direzione opposta da alcuni anni.

L’assemblea ri-costituente di novembre dei 5stelle ha deviato come era prevedibile sui due nodi interni: il limite dei due mandati e il ruolo del Garante. Giusto sciogliere i nodi ma il resto è diventato di contorno e malgrado le molte decine di interventi collettivi e almeno 22mila contributi individuali, avendone  letti una buona parte mi è sembrato che non si siano quasi neanche sfiorati  alcuni nodi  decisivi del futuro dell’Italia e dell’intera Europa:

1) Quando si  impone un confronto pubblico su un nuovo sistema elettorale proporzionale ?

2) Quando si propone una nuova gestione sui migranti basata su corridoi umanitari gestiti dallo Stato eliminando gli scafisti, invece della zuffa disastrosa fra xenofobia e il liberi tutti delle ong venduta come scontro epocale fra la destra e la sinistra per gestire la crisi migratoria ?

3) Siamo sicuri che la difesa a caro prezzo del settore auto (in parte saturo e in parte decimato dall’automazione) sia più conveniente di interventi radicali per accelerare decarbonizzazione e mobilità alternativa all’auto ?

4) Come si concilia la spinta al riarmo europeo nella Nato, che crescerà con l’avvento di Trump, con l’ipotesi, condivisibile ma complessa, dell’esercito europeo che è ovviamente alternativo all’attuale rigido legame con la Nato e inevitabilmente sensato solo se connesso ad un nuovo percorso federativo europeo ?

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Il riformismo radicale che ci manca   da tanti anni deve occupare il centro del sistema politico, proporre la propria agenda fatta di soluzioni chiare ed efficaci per ogni problema e su queste conquistare la maggioranza e costruire compromessi accettabili in piena autonomia dalla sinistra, dalla destra, dal moderatismo di centro. Se ci si sottrae dalla scenografia  mediatica dove  chi non è di destra è di sinistra e chi non è di sinistra non può che essere  di destra e si riportano le alleanze  sociali  alla  soluzione dei  temi irrisolti che emergono dalla società reale l’Alternativa è proponibile alla grande parte dell’intera società italiana.  Ci si deve allontanare dal tradizionale scontro bipolare sempre meno vissuto come reale  da parti consistenti della società.  Serve certo un apparato di militanti e leader più competenti, ma più immersi nella società reale e più inclini a  disamorarsi con facilità dai propri ruoli.    

                                                                                           dicembre 2024

 

(1) I morti nella IIa guerra mondiale furono 25 mil. in Unione Sovietica, 19,6 in Cina, 7,4 mil. in Germania, 5,6 mil. in Polonia, 4 mil. in Indonesia, 2,6 mil. in Giappone,  1,6 mil. in Jugoslavia, 1,5 mil. in India. Almeno  mezzo milione in Francia e  quasi mezzo milione in Italia. Quasi 6 milioni di ebrei di vari  paesi dell’Europa sono stati sterminati.

 

Bibliografia

Wikipedia: Vittime della seconda guerra mondiale

Dataroom: tagli al Servizio sanitario nazionale, chi li ha fatti e perché – marzo 2020

Andrea Degl'Innocenti: Ecco quante e quali sono le guerre nel mondo – aprile 2022

Luca Ricolfi: Può esistere un partito sia di destra sia di sinistra? - settembre 2024

Milano Finanza: Auto elettriche, la rivincita di Marchionne - settembre 2024

 Maurizio Pallante: Perché noi ecologisti abbiamo uno scarso consenso politico - ottobre 2024

Donatella Di Cesare: Il progressismo è solo per l’élite occidentale - novembre 2024

Massimo Cacciari: L’egemonia dell’Occidente non esiste più - novembre 2024

Tomaso Montanari: Votare non salva più nessuno: lottare è la “nuova” politica - novembre 2024

Barbara Spinelli: Il sonno ipnotico della sinistra - dicembre 2024

Nicola Armaroli, Gianni Silvestrini: Comunicare e gestire la transizione energetica - dicembre 2024

L’Europa in crisi e il futuro della democrazia -  dicembre 2024

Livio De Santoli: Energie pulite, l’Italia non rinnova - dicembre 2024

22 dicembre 2024

Germania sotto shock per l’attacco sotto elezioni

Il lutto di Magdeburgo Il giorno dopo l’attentato al mercatino di Natale il bilancio delle vittime sale a cinque (tra cui un bambino di 9 anni) e 205 feriti di cui una trentina in condizioni critiche


di Sebastiano Canetta *

Il giorno dopo la strage, con il tricolore tedesco issato a mezz’asta su tutti gli edifici pubblici come disposto dalla ministra dell’Interno, Nancy Faeser, la ricostruzione dei fatti appare pressoché completa. Ci sono il reo confesso e il movente dichiarato («ho agito per vendetta su come la Germania tratta le rifugiate saudite») mentre appare sempre più innegabile la complicità colposa del fallimentare sistema di sicurezza del mercatino di Natale di Magdeburgo, bucato con incredibile facilità dall’attentatore. Per superare le barriere di protezione intorno alle bancarelle gli è semplicemente bastato utilizzare la corsia di emergenza riservata alle ambulanze. Drammaticamente incerta resta invece la conta delle vittime. L’ultimo bollettino riporta 5 morti (tra cui un bambino di 9 anni) e 205 feriti di cui una trentina in condizioni critiche al centro della grave preoccupazione esternata nella nota ufficiale del cancelliere Olaf Scholz senza alcuna retorica e dopo l’urgente appello dei medici degli ospedali della Sassonia-Anhalt a tutti i donatori di sangue.

IL MASSACRO di Magdeburgo ha le dimensioni di una catastrofe naturale abbattutasi su un paese indifeso, ed è più o meno così perché la vigilia devastata dalla strage improvvisa non è solo e tanto quella di Natale ma più in generale delle imminenti elezioni federali. Di fatto l’attentato compiuto da Taleb Al Abdulmohnsen ingerisce nel voto nazionale ben più degli endorsement pro-Afd di Elon Musk. Basta registrare l’ultimo sondaggio della Bild, il tabloid nazional-popolare sempre ben sintonizzato con la pancia dei tedeschi: «Ci fidiamo ancora davvero a frequentare ancora i mercatini di Natale?» è il quesito che restituisce l’impatto del terrore facendo ben capire quale sia il clima di paura che si sta alimentando in vista delle urne del 23 febbraio. Sarà (anche) questa la domanda che milioni di elettori si faranno prima di imbucare la scheda.

NESSUNO A BERLINO, lo nega più, e infatti fra le segreterie dei partiti si prova cinicamente a calcolare ormai soltanto a chi potrà giovare politicamente il brutale attentato di Natale. Un arma a doppio taglio per chiunque abbia intenzione di impugnarla in campagna elettorale: il terrorista di Magdeburgo denuncia sì il pericolo islamico esattamente come Afd però non è distante dall’album di famiglia dell’ultradestra, mentre il suo profilo multi-polare mette in crisi non poco anche la stretta sui migranti siriani imposta dall’Ue e lo stop alle richieste di asilo dei siriani appena varato dal governo Scholz: se il “nemico” è già dentro i confini a cosa serve raddoppiare la sicurezza, come prevedono i programmi dei partiti progressisti? Un altro quesito a cui a rispondere saranno probabilmente gli elettori.

CON IL LEIT MOTIV della rivendicazione complottista del medico saudita che fa leva, tanto per cambiare sull’ex cancelliera Angela Merkel, iniziatrice dell’islamizzazione imposta per prima dalla Cdu e tuttora paladina dei rifugiati. Giusto Sahra Wagenknecht può vantare sulla carta un possibile guadagno dopo che ha messo sulla graticola la ministra Faeser insieme a tutti i governi precedenti. La leader del Bsw chiede polemicamente come siano stati utilizzati i miliardi destinati alla sicurezza contro il terrorismo, parlando direttamente alle tasche del paese. «La polizia potrebbe aver valutato male il pericolo del sospettato nonostante gli avvertimenti» ammette Jochen Kopelke, presidente federale del sindacato di polizia prima di precisare che «solo perché le autorità di sicurezza tedesche ricevono segnalazioni dall’estero non significa che possiamo elaborarle immediatamente. Per fare questo abbiamo bisogno di maggiori poteri e risorse per prevenire crimini gravi» è un altra inquietante richiesta pre-elettorale

PER ADESSO I TEDESCHI sono ancora paralizzati dallo shock provocato dalla scena post-apocalittica della piazza vuota di Magdeburgo. Rimane stampata in testa l’immagine delle decine di guanti chirurgici usati rimasti sul terreno della strage, i pezzi di palle di natale frammisti al sangue non ancora rappreso. L’orrore andato in scena in tutte le edizioni dei telegiornali nazionali. Mentre non si fermano le commemorazioni spontanee, a partire dalla solidarietà della comunità islamica tedesca scesa in campo nel ricordo delle vittime e per denunciare l’estremismo. Sullo sfondo resta il conto perlomeno politico che la Germania comunque presenterà, prima o poi, a Elon Musk. Colui che ha «permesso la propagazione dell’odio e della violenza che vediamo oggi sulla sua piattaforma» per dirla con le parole di fuoco di ieri di Karl Lauterbech, ministro della Sanità della Spd.

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Lo psichiatra saudita anti Islam e pro Afd

Taleb Al Abdulmohnsen, il killer del mercatino di Natale di Magdeburgo, già nella lista nera di Riyadh, era noto anche alle autorità di Berlino

di Sebastiano Canetta *

Il dottor Taleb Al Abdulmohnsen – il terrorista di Magdeburgo – lo conoscevano tutti, dai vicini di casa nel borgo di Bernberg dove viveva ai colleghi delle due cliniche nella Sassonia-Anhalt in cui prestava servizio come psicologo e psichiatra; senza considerare la frenetica attività come «difensore delle donne oppresse dall’Islam» sviluppata insieme al sito wearesaudis.net rilanciato dalla Bbc e da Al Jazeera oltre che dai media nazionali. Ma il medico era noto anche a Berlino. Lo scorso febbraio si era presentato al distretto di polizia del rione di Tempelhof per sporgere denuncia su presunti «abusi delle istituzioni tedesche sulle rifugiate saudite». In evidente stato confusionale, era stato prontamente accompagnato alla porta dagli agenti con una multa di 600 euro per abuso della chiamata d’emergenza dopo che, insoddisfatto dell’accoglienza ricevuta, aveva chiesto l’intervento dei vigili del fuoco. Il giorno prima di compiere la strage al mercatino di Natale di Magdeburgo Al Abdulmohnsen era atteso nel tribunale di Berlino per il rigetto del suo ricorso alla sanzione, come conferma il registro delle udienze che riporta anche la sua mancata presenza. Non era la prima volta che il medico saudita compariva davanti a giudici. Già nel 2013 a Rostock era stato condannato per aver minacciato di commettere crimini violenti, tre anni prima di presentare domanda per il permesso di soggiorno, regolarmente accettata con buona pace dell’attuale norma anti-terrorismo concentrata sul contrasto dell’immigrazione illegale.

Al Abdulmohnsen faceva rumore sotto tutti i punti di vista, ed era impossibile non accorgersi della necessità di indagare fino in fondo il grado del suo estremismo, sebbene non sia mai risultato nelle liste dei potenziali terroristi, a esclusione naturalmente del lungo elenco dei nemici dell’Arabia Saudita consegnata dalla monarchia wahabita di Riyad a tutti i paesi occidentali, Germania compresa. Invece «nessun pericolo concreto» è la conclusione ufficiale della «valutazione del rischio» sul dottore compilata appena un anno fa dagli esperti di Bka e Lka, rispettivamente la polizia criminale federale e del Land della Sassonia-Anhalt, che pure si erano poste il problema. Non è bastato che Al Abdulmohnsen sbandierasse pubblicamente la sua rabbia per l’«islamizzazione forzata della Germania» sfociata nel massacro al mercatino di Natale. Era sul piede di guerra già all’epoca di Angela Merkel, accusata di avere dato inizio alla «rovina dell’Europa» e per questo minacciata di morte, ma si era distinto anche sui social con il like ai messaggi ispirati alla politica xenofoba di Afd e ai post con le immagini celebrative dei generali israeliani a Gaza, egualmente sintomatiche della sua ideologia anti-islam. «Dopo l’arresto Al Abdulmohnsen non ha superato il test anti-droga» fa sapere la polizia a completamento dell’identikit e aprendo un capitolo parallelo che attende di essere sondato come il resto della sua parabola tedesca cominciata con l’entrata nel paese nel 2006 grazie a un visto per la specializzazione medica e finita con la strage di Natale del 2024.

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Per l’ultra destra europea (e per l’attentatore) è colpa dei migranti

Le reazioni Allarme sicurezza, Piantedosi intensifica i controlli nei luoghi affollati. Le destre europee in tilt dopo l'attentato di Magdeburgo

di Andrea Valdambrini *

«Non è la prima volta che accade sotto Natale. È un tema col quale ci confrontiamo da anni. Dobbiamo essere attenti a come gestiamo le nostre politiche anche per come riusciamo a garantire la sicurezza dei nostri cittadini». Così la premier Giorgia Meloni commenta l’attentato di Magdeburgo dalla Finlandia, dove ha preso parte al primo vertice Nord-Sud. Mentre a Roma il ministro dell’Interno Piantedosi presiedeva una riunione con i vertici delle forze di polizia, indicando la necessità di intensificare la vigilanza nei luoghi affollati e l’attenzione verso gli ambienti di possibile radicalizzazione. Un allarme concreto non c’è, fa sapere il Viminale, ma il pericolo emulazione non si può escludere. Ancora di sicurezza parla il vicepremier Matteo Salvini, che definisce l’atto terroristico come una dimostrazione che «quando non si vigila sull’immigrazione nel nome di una autolesionistica tolleranza si mette a grave rischio la sicurezza di tutti». A puntare il dito contro le politiche di accoglienza è anche il premier ungherese Viktor Orbán sempre in prima linea sul fronte anti-immigrazione. Con le sue parole, Orbán fa riferimento soprattutto alla Germania, ma guarda all’orizzonte del continente. «Tali incidenti si sono verificati solo in seguito alla crisi dei rifugiati del 2015», ha detto parlando da Budapest e richiamandosi all’arrivo in Germania dei rifugiati siriani nove anni fa. La «connessione» tra aumento dell’immigrazione e aumento della violenza, «è evidente anche se alcuni cercano di negarla».

Le posizioni dei diversi leader delle destre europee sembrano quindi convergenti. Ma il corto circuito tra le convinzioni dell’attentatore di Magdeburgo e il credo xenofobo dei partiti ultranazionalisti è però evidente. Saudita ma anti-Islam, terrorista con le modalità dell’Isis ma sostenitore dell’ultradestra tedesca di Afd, lo psichiatra 50enne Taleb Al Abdulmohnsen è oltretutto fan del santo protettore di tutte le estreme destre, ovvero Elon Musk. Proprio Musk che, all’indomani dell’attacco di venerdì sera, ha sostenuto che «solo Afd» può salvare la Germania. Poi, attaccando il cancelliere Olaf Scholz («pazzo incompetente») ha definito l’aggressione «risultato diretto di un’immigrazione di massa non controllata». Così le parole del consigliere di Donald Trump sembrano aver dato il via a una lettura dell’accaduto piuttosto contraddittoria.

Nei commenti dei partiti ultranazionalisti, si torna a citare lo «scontro di civiltà» tanto cara alla famiglia orbaniana di cui in Europa fanno parte tanto la francese Le Pen e l’olandese Wilders, che il leghista Salvini. «La barbarie islamista sta seminando terrore nel cuore dell’Europa», sottolineava a caldo la leader del Rassemblement National, che definisce l’azione «un atto di guerra contro un simbolo della nostra civilizzazione». L’analisi è contenuta in un tweet pubblicato venerdì notte poco dopo i fatti di Magdeburgo, che fino alla serata di ieri non è stato rimosso dall’account X di Le Pen. In sintonia la posizione della leader francese è Geert Wilders, storico capo degli islamofobi olandesi il cui partito è ora al governo all’Aja. Oltre a ricordare che «come dico da 20 anni, bisogna smetterla con queste frontiere aperte», descrive così l’azione di Abdulmohnsen: «Un altro attacco barbarico, stavolta arrivato da un uomo dell’Arabia saudita». Accenti simili sono espressi da Nigel Farage, creatore del partito Reform Uk, attualmente in testa ai sondaggi nel Regno Unito. «Abbiamo permesso a persone che odiano noi e i nostri valori di entrare in Europa. Il Natale è il loro obiettivo». Eppure, l’autore dell’attacco di Magdeburgo esprimeva via social la propria indignazione nei confronti del tentativo di «islamizzare l’Europa» da parte della Germania.

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Musk e l’ossessione nera per la Germania: «Solo Afd può salvarla»

Verso il voto L’endorsement su X a quattro giorni dall’inizio della campagna elettorale, questa volta il bersaglio è il leader Cdu Friedrich Merz

di Sebastiano Canetta *

Ancora una volta Elon Musk entra a gamba tesa nella politica interna di Berlino interferendo sulla campagna elettorale iniziata da appena quattro giorni. Nonostante siano i nemici giurati dell’auto elettrica, il padrone di Tesla si schiera a fianco dei fascio-populisti tedeschi: «Solo Afd può salvare la Germania» è il suo endorsement su X a favore del partito oggi al secondo posto nei sondaggi nazionali. Segue il retweet del video postato da Naomi Seibt, 24 anni, nota influencer nell’orbita di Afd, conosciuta nell’ultradestra come l’«anti-Greta» e sospesa più volte da YouTube per aver diffuso teorie complottiste. Un’ingerenza mal digerita a Berlino da quasi tutti i leader politici a eccezione del segretario di Fdp, Christian Lindner, pronto anzi a invitare Musk al confronto faccia a faccia: «Non trarre conclusioni affrettate. Incontriamoci!» rilancia l’ex falco delle Finanze che ha fatto colare a picco il governo di Olaf Scholz, il cancelliere già bollato come «uno sciocco» dal tycoon Usa.

IL PIÙ ARRABBIATO comunque resta il segretario della Cdu, Friedrich Merz. Da super-atlantista e ultrà filo-americano fin dai tempi in cui lavorava per il fondo BlackRock per lui è «inaccettabile» che Musk soffi il vento sulle vele del più diretto concorrente elettorale dei cristiano-democratici, già anche troppo gonfie: Afd nei sondaggi vale ormai cinque punti più di Spd e Verdi e (al contrario della Cdu) ha aumentato del 2% il consenso dopo il voto di sfiducia a Scholz. Soprattutto Merz considera l’endorsement di Mr. Tesla come un affronto personale: il video caricato dalla social-star di Afd rilanciato da Musk prende di mira proprio il leader Cdu che aveva fatto sapere di essere «inorridito» di fronte al modello turbo-capitalista di Javier Milei, a cui invece Lindner guarda con interesse. «Il presidente argentino sta rovinando il suo paese calpestando i cittadini» sono le parole del capo della Cdu alla base dell’intervento di Musk. Mentre Scholz osserva tutto quasi da spettatore esterno: stavolta l’obiettivo non è lui ma il suo sfidante più pericoloso nella gara per il rinnovo della cancelleria; per la Spd in compenso replica a tono il deputato Jens Zimmermann con riferimento all’indagine sulla disinformazione propagandata su X aperta dalla Commissione Ue. «Il procedimento si chiuderà presto e verranno emesse severe sanzioni. La legge europea si applica anche a Musk quando offre i suoi servizi ai nostri cittadini. Se continuerà a non adeguarsi, le multe saranno la logica conseguenza».
Sotto questo aspetto socialisti e democristiani stanno dalla stessa parte dentro e fuori dalla Germania.

IL TASTO VIENE TOCCATO con la massima forza anche dall’eurodeputato Cdu Dennis Radtke, egualmente preoccupato per le continue ingerenze esterne. «È minaccioso e irritante che una figura chiave del futuro governo Usa interferisca così nella nostra campagna elettorale. Musk sta diventando sempre più una minaccia per il mondo occidentale e ha trasformato X nella fionda della disinformazione. Dobbiamo iniziare a difenderci da questo nemico dichiarato della democrazia a cui in troppi continuano a stendere il tappeto rosso». La prima ovviamente è Alice Weidel, beneficiaria unica della discesa in campo di Musk. «Ha ragione quando parla di fallimento della politica tedesca» esordisce la candidata-cancelliera dell’ultra destra prima di bastonare la Cdu con il suo refrain preferito: «A rovinare la Germania è stata la “socialista” Angela Merkel». La deputata di Afd, Beatrix von Storch, plaude invece al risultato politico del nascente asse internazionale fra sovranisti. «La Germania ha bisogno di noi come gli Usa hanno bisogno di Trump, come l’Argentina ha bisogno di Milei».

* 4 interventi da il manifesto del 21-22 dicembre 2024

 

18 dicembre 2024

Siria: Rojava sotto tiro. E la questione ci riguarda

 L'autogoverno Resistendo al terrore e costruendo fra infinite difficoltà un ordine democratico ed egalitario, i curdi ci hanno insegnato la perseveranza. Oggi non si parla solo del tradimento della loro causa, ma anche del tradimento della nostra


di Francesco Strazzari *

Inverno 2014: si combatte a Kobane, con le difese curde schiacciate fra l’avanzata dell’Isis e il confine turco, pattugliato da militari compiacenti con i jihadisti. La Siria del dopo-Assad nasce anche nella Kobane che viene nuovamente assediata, dieci anni dopo la decisione di Obama, incalzato dall’opinione pubblica di mezzo mondo, di intervenire dalla parte di chi si mostrava capaci di resistere al dilagare di un terrore che pareva inarrestabile. Lo stesso che vendeva sul mercato degli schiavi le bambine curdo-yazide sopravvissute al genocidio. Lo stesso che, mesi prima aveva esibito quale monito all’ingresso di Azaz, fra Aleppo e la Turchia, quattro teste mozzate di curdi, inaugurando la stagione dei tagliagole. I curdi, male armati, sembravano allora una brigata di autodifesa contadina.

Le cose però cambiarono in fretta: arrivarono volontari e volontarie da ogni parte, e le sevizie piegavano le combattenti attratte dalla vocazione paritaria del confederalismo democratico curdo, le quali affluivano anche da oltre confine. Si stima che i curdi siriani abbiano pagato un tributo di 15.000 morti nella campagna contro lo Stato Islamico: fin dentro la roccaforte di Raqqa, fino a condurre le forze speciali Usa a eliminare il califfo al-Baghdadi sul confine turco. Con le poche risorse di cui dispongono, le Syrian Democratic Forces (Sdf), nerbo militare dell’autogoverno a guida curda, si sono trovate a gestire decine di migliaia di prigionieri sopravvissuti all’ultima battaglia dell’Isis, schiacciate fra il rifiuto degli stati ad accettarne il rimpatrio e i continui tentativi di ribellione.

Si suppone che il nuovo califfo dello Stato Islamico si nasconda oggi lontano dal Levante, probabilmente nel Puntland somalo. Giorni fa, Isis ha ucciso un ministro dell’Emirato afghano, un eroe di guerra talebano appartenente al clan Haqqani. In Siria si appresta a chiudere il 2024 con più di 700 attacchi portati a compimento, tre volte più che nell’anno precedente: azioni sempre più frequenti, sofisticate e non più limitate alle infrastrutture petrolifere nella regione presidiata dalle truppe americane  schierate a fianco delle Sdf. Gli Stati uniti mantengono sul terreno 900 uomini e hanno ben chiaro che, oggi come allora (si pensi alla Libia post-Gheddafi), i miliziani jihadisti agiscono ritagliandosi margini di manovra lungo le linee di faglia di conflitti esistenti: i comandi Usa hanno dichiarato di aver colpito a scopi preventivi l’Isis un’ottantina di volte solo nelle ultime due settimane di caos siriano.

In parallelo all’offensiva di Hayat Tahrir al-Sham che ha fatto crollare il regime di Assad, si sono mosse a nord le milizie della Syrian National Army (Sna): finanziati dalla Turchia, si tratta in larga misura di paramilitari dal passato jihadista, distintisi per le violenze e le estorsioni nelle regioni siriane controllate da Ankara. Dopo il ritiro delle Sdf da Manbij, città a maggioranza araba sul lato occidentale dell’Eufrate, un cessate il fuoco mediato dagli americani la scorsa settimana ha riportato i miliziani islamisti nuovamente in vista di Kobane. Un’occasione ghiotta per la Turchia di Erdogan, che da anni insiste per una “fascia di sicurezza” di 22 miglia lungo la quale operare dentro il confine siriano contro ‘i terroristi del Pkk’: così le Sna hanno rotto il cessate il fuoco e i turchi hanno iniziato a smantellare il muro sul confine di Kobane, ammassando incursori e artiglieria. Lo scopo è spazzare via l’autogoverno curdo a est dell’Eufrate, prendendosi 120km di confine. Nel fare questo, la Turchia si dichiara pronta a rilevare la campagna anti-Isis in Siria, e muove tutti i fili che controlla nella regione, incluse le fazioni curde tradizionaliste e i clan politici che governano la regione autonoma del Nord dell’Iraq: i cosiddetti ‘curdi buoni’ protetti da Ankara. Intanto i leader «terroristi» del Rojava accettano la nuova bandiera della rivoluzione siriana, si appellano a Trump, chiedendo di fermare Erdogan: non è chiaro se Washington lascerà ai turchi lo spazio aereo di cui hanno bisogno per colpire.

Per sua parte, la ministra tedesca degli esteri, Annalena Baerbock, ha reso omaggio a Kobane e al Rojava, chiedendo a Erdogan di rispettare la sovranità siriana, mentre dall’Italia arriva silenzio.

I capi delle milizie filoturche sono andati a Damasco cercando l’acquiescenza al nuovo uomo forte, al-Julani, che in effetti non pare incline ad una visione decentrata o federale del nuovo ordine politico siriano. I nuovi leader non sono certo semplici emissari di Ankara, ma sono sopravvissuti per anni all’ombra del confine turco. I conti fra le diverse fazioni rivoluzionarie sono aperti e complessi, quantomeno da quando Assad liberò islamisti e jihadisti al fine di avvelenare i pozzi della rivolta contro il regime.

La questione curda abbraccia l’intera regione mediorientale. Ci parla non solo di Turchia e Siria, ma anche dei e delle militanti del movimento Donne Vita Libertà, che l’Iran perseguita fin dentro le città irachene, costringendo alla fuga sui barconi fino alle coste calabresi, fra naufragi-fantasma e arresti con accuse di scafismo. Accanto ai curdi abbiamo visto mobilitarsi in questi giorni altre minoranze siriane, inclusi gli armeni che temono la pulizia etnica già vista nel Nagorno Karabakh.

Resistendo al terrore e costruendo fra infinite difficoltà un ordine democratico ed egalitario, i curdi ci hanno insegnato la perseveranza. Oggi non si parla solo del tradimento della loro causa, ma anche del tradimento della nostra.

*  da il manifesto 18 dicembre 2024

«Le unità di difesa popolari curde devono sciogliersi o verranno sciolte»

Una rivoluzione confederale da salvare

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