18 novembre 2024

Il progressismo è solo per l’élite occidentale

di Donatella Di Cesare *

 C’era una volta il Progresso. E c’era l’enorme entusiasmo che suscitava: il domani sarebbe stato migliore dell’oggi, la prosperità avrebbe trionfato per tutti, la razionalità avrebbe sconfitto le tenebre, la società sarebbe stata più avanzata. Di tutto ciò dopo pandemie, guerre, riscaldamento climatico, violenze e brutalità di ogni genere, resta ben poco. Solo una vulgata chiamata progressismo che ha i suoi adepti e nostalgici nelle élites occidentali ed è un insieme di buoni sentimenti, luoghi comuni, slogan fatti di stereotipi e termini vaghi con cui si celebrano “modernizzazione”, “sviluppo”, “innovazione”, “crescita”. Questo progressismo diffuso, di grande povertà concettuale, è diventato il codice a cui attingono i politici di professione del centrosinistra. È un codice che funziona a mo’ di slogan pubblicitario – anzi la pubblicità ne ha tratto vantaggio. “Sì al cambiamento. Votate Apple”, “Il Pd è il progresso”, eccetera.

Dopo la liquidazione di tutti i contenuti della sinistra europea, soprattutto della sinistra italiana, il progressismo è diventato l’etichetta più neutra possibile, il passe-partout che si adatta alle posizioni più elusive – anche Draghi a suo modo è un progressista – di quel conformismo ideologico che costituisce la retorica delle élites occidentali. Può essere usato senza pensarci troppo e senza crederci troppo. Basta imparare la lezioncina. Meglio poi se, a conferma che tutto va per il meglio, ci si concentra su quelli che vengono chiamati “diritti”, e spesso non sono che i privilegi ulteriori di chi gode già di una sfera privilegiata. La risata di Harris, grottesca e intempestiva, è il simbolo di tutto ciò. La sua cocente disfatta è la sconfitta delle élites progressiste occidentali. Se da un canto portano il peso di enormi errori compiuti a più riprese nel corso degli ultimi anni, dall’Afghanistan a Gaza e ritorno, passando per l’Ucraina, dall’altro non hanno più nulla, o quasi, da dire sui grandi temi politici che dovrebbero essere all’ordine del giorno: la guerra, la povertà, l’inflazione, il lavoro, la migrazione, le devastazioni climatiche. E in Italia se ne aggiungono molti altri: la sanità, l’istruzione, il Sud, un vero progetto politico per le donne.

Non basta il pessimismo dell’intelligenza di chi riconosce che non si sta andando verso il meglio. E non basta neppure richiamare, come alcuni fanno, l’opposizione tra diritti civili e diritti sociali, anche questa un po’ stantia. La nuova destra trumpiana, che trova in Europa i suoi più schietti esponenti in Viktor Orbán e Giorgia Meloni, vince – e continuerà a vincere – per almeno tre profonde ragioni. La prima è che sa presentarsi come novità (e forse in parte lo è), rispetto al progressismo elitistico che suonava già obsoleto vent’anni fa. Questo linguaggio della vecchia borghesia liberale, che ha preteso di farsi universale, parlando anche per i ceti subalterni, semplicemente non funziona più.

La seconda ragione è che la fine delle certezze progressiste ha provocato smarrimento, rassegnazione, rancore, fuga nella vita privata, chiusura nella famiglia, corsa al successo individuale in una competizione all’ultimo respiro con gli altri. La nuova destra, oltre a riconoscere tutto ciò, sa dare una risposta, per quanto banale e spietata.

La terza ragione sta nella ricetta: offrire un saldo riparo da quel che avviene lì fuori, nell’ingovernabile caos del mondo, tra conflitti e catastrofi. Il che suona come musica per le orecchie dei preoccupati e ansiosi cittadini delle democrazie occidentali. E il riparo è ovviamente per loro, sebbene si precisi come scudo per alcuni gruppi, per alcune tribù (non sarebbe destra!), che in Italia, ad esempio, sono tassisti, balneari, autonomi, piccoli e grandi evasori, eccetera. Funziona così e funziona bene, visti anche i risultati. Perché promette di difendere gli interessi di alcuni, e li difende. Ma poi sa fare l’occhiolino ai ceti subalterni che appartengono pur sempre alla nazione. Questo insegna Trump, l’affarista entrato in politica solo per curare il corpo malato dell’America, il guaritore, che depurerà quel corpo da ogni minaccia sovversiva interna e da ogni pericolo esterno. Autarchia, grandezza mistica, purezza dell’ultranazionalismo.

Dall’altra parte c’è il progressismo astratto, che ostenta valori universali, che millanta di promuovere gli interessi di tutti e che, a ben guardare, persegue solo quelli di pochi. A questa scialba versione di routine non credono più neppure le élites occidentali che ne detengono il monopolio. Finché questa vuota ideologia non imploderà, finché questo linguaggio fatto di grotteschi ritornelli, non mostrerà fino in fondo tutti i suoi non-sensi, sarà impossibile costruire una vera alternativa in grado di essere all’altezza dei tempi.

* da ilfattoquotidiano.it ( via infosannio) – 17 novembre 2024

26 ottobre 2024

I giganti del web pagano meno tasse delle Pmi italiane

Le imprese spendono 24,6 miliardi annui, le multinazionali versano 206 milioni

di Stefania Valbonesi *

Tasse, quanto pagano le nostre Pmi e quanto i giganti del web? Mentre il tema delle imposte scalda la politica e costringe la premier a stare sulla difensiva assicurando che nessuno aumenta le tasse agli italiani, il Centro Studi della Cgia di Mestre fa i conti in tasca ai giganti del web, li confronta con le tasse pagate dalle Pmi, e rilancia in qualche modo, necessariamente, il tema di “dove andare” a prendere i soldi che mancano disperatamente al tessuto produttivo italiano e alla manovra di bilancio.

In sintesi, ciò che emerge è che questi gruppi, a differenza delle nostre Pmi,” continuano a fare ricavi da capogiro, senza versare al fisco quanto dovuto”.

“Sino alla fine dell’anno scorso, infatti, hanno continuato a trasferire buona parte degli utili realizzati in Italia nei paesi a fiscalità di vantaggio – scrivono i ricercatori di Cgia Mestre – Risultato? Grazie a queste operazioni elusive, il nostro erario ha incassato da queste WebSoft solo le briciole”.

Sì, ma quante “briciole”? Dai numeri emersi dal confronto operato dall’Ufficio studi della CGIA.. le Pmi italiane pagano ogni anno 24,6 miliardi di tasse, mentre le 25 multinazionali del web presenti in Italia versano, secondo l’Area Studi di Mediobanca, 206 milioni di euro. I ricercatori di Cgia non si scompongono neanche all’ovvia obiezione che le dimensioni economiche di queste due realtà sono molto diverse, ma, ribattono, “dal punto di vista degli artigiani mestrini, il risultato che emerge è sconsolante. Se le aziende italiane prese in esame producono un fatturato annuo 90 volte superiore a quello riconducibile alle big tech, in termini di imposte, invece, le prime ne pagano ben 120 volte più delle seconde”, E sebbene la comparazione presenti “una serie di limiti metodologici e non ha alcun rigore scientifico”, tuttavia, prosegue la nota, .”il ricorso sistematico all’elusione praticato negli anni ha aumentato questa disparità di trattamento, mettendo in evidenza in misura inequivocabile che, in Italia, alle grandi multinazionali, in questo caso tecnologiche, continua a essere riservato un prelievo fiscale ingiustificatamente modesto

Cosa succederà con l’arrivo della Global minimum tax (Gmt)? Secondo il dossier curato dal Servizio Bilancio dello Stato della Camera e cui fa riferimento la nota di Cgia Mestre, “il gettito previsto dalla sola applicazione dell’aliquota del 15 per cento sulle multinazionali sarà molto contenuto. Si stima che nel 2025 il nostro erario incasserà 381,3 milioni di euro, nel 2026 427,9 e nel 2027 raggiungerà i 432,5. Nel 2033, ultimo anno in cui nel documento si stimano le entrate, le stesse dovrebbero sfiorare i 500 milioni di euro”. Per quanto riguarda l’area interessata dalla Gmt, nel 2024 interesserà 19 paesi UE: Spagna e Polonia nel 2025 si adegueranno, mentre Estonia, Lettonia, Lituania, e Malta hanno ottenuto una proroga sino al 2030. “Cipro e Portogallo, infine, sono chiamate a rispondere alla sollecitazione giunta da Bruxelles che ha recapitato loro una lettera di messa in mora. Appare evidente che per le grandi holding presenti nei paesi UE rimane ancora la possibilità, almeno per i prossimi 5/6 anni, di spostare parte degli utili in alcuni paesi membri dove la tassazione continua essere molto favorevole”.

Tirando le fila, i giganti del web a fronte di profitti elevati, versano poche tasse. Non è una gran notizia, ma ciò che lascia perplessi è il “ricorso a tecniche elusive che hanno consentito di spostare una parte degli utili ante imposte realizzati in Italia nei paesi a fiscalità di vantaggio”, scrivono gli studiosi della Cgia. .”Sappiamo che le regole della Gmt sono molto articolate ed è verosimile ritenere che ogni norma di carattere nazionale potrebbe non essere sufficiente a rendere il prelievo fiscale più equo. Nonostante ciò è indispensabile trovare un compromesso che non pregiudichi la fuga di queste aziende dal nostro Paese, ma allo stesso tempo le costringa a pagare il giusto, o quasi. L’elusione è una pratica che riguarda ormai tutti i grandi player”.


Infatti, alcuni grandi player italiani da qualche anno hanno trasferito la sede fiscale o quella legale “magari solo di una consociata“, in Paesi europei che prevedono un trattamento fiscale più favorevole. Fra questi, i Paesi Bassi, che adottano una legislazione societaria molto favorevole, che permette, spiegano dall’Ufficio Studi, “agli azionisti storici di avere il doppio dei voti in assemblea, modalità che consente di difendersi meglio da eventuali scalate provenienti da investitori stranieri”, ma anche, eventualmente, di godere di un trattamento tributario molto interessante, che il governo olandese riserva a ogni big company disposta ad aprire la sede fiscale ad Amsterdam. Operazioni che, vogliamo sottolinearlo, sono “formalmente ineccepibili da un punto di vista fiscale-societario”, ma riducono inevitabilmente la base imponibile di coloro che pagano le tasse in Italia. E a essere penalizzate, come ha ben spiegato la ricerca della Cgia mestrina, sono in particolare “le realtà imprenditoriali di piccola e piccolissima dimensione che, a differenza delle grandi aziende, non hanno la possibilità di lasciare armi e bagagli e trasferirsi altrove”.

E in Italia? Dallo studio emerge che in Molise e Valle d’Aosta le big tech pagano più delle imprese locali. Una particolarità che si ferma a queste due regioni , risultato della comparazione operata dai ricercatori sebbene “risenta di alcune fragilità presenti nella metodologia di calcolo adottata”.

Il quadro ipotizzato dall’Ufficio Studi della Cgia sarebbe il seguente: se in Molise il gettito delle principali imposte pagate dalle aziende residenti è “pari a 175 milioni di euro e in Valle d’Aosta a 1907, nel 2022 i giganti del WebSoft hanno prodotto 9,3 miliardi di fatturato e versato al fisco italiano complessivamente 206 milioni di euro. Nulla a che vedere con quanto “contribuiscono” le imprese lombarde che, invece, pagano all’erario 125 volte in più di quanto versano questi 25 colossi digitali, quelle laziali 56,7 in più, quelle emiliano-romagnole 38 e quelle venete 36,8”.

* da www.thedotcultura.it - 18 ottobre 2024

12 ottobre 2024

Berlino è cambiata e non lo ha fatto in meglio

Berlino è sempre cambiata. È la sua stessa natura. A inizio 1900 il critico d'arte Karl Scheffler non a caso pronunciò una frase poi diventata famosa: Berlin ist eine Stadt, verdammt dazu, immerfort zu werden, niemals zu sein e cioè Berlino è una città condannata per sempre a diventare, mai ad essere.

Insomma, è sempre stato così.

È la natura stessa della città, così come Roma è destinata, purtroppo o per fortuna, sempre ad essere così come è (lo dico da romano, oggi a scrivere la newsletter ci sono io, Andrea D'Addio).

Eppure affermare oggigiorno Berlino è cambiata ha un significato diverso, negativo. L'evoluzione a cui va incontro è senza se e senza ma, negativa. C'è meno libertà (lo dimostrano il modo in cui la polizia reprime i cortei), diventa sempre più cara (più di quanto ci si potrebbe aspettare), non ha alloggi dove chi è appena arrivato può andare ad abitare (anche per poco, anche come appoggio) e vi si respira un'aria così così: tutto intorno, infatti, ovvero nel Brandeburgo, con il recente risultato elettorale l'ultra destra di AfD ha dimostrato che intorno alla città, e probabilmente anche dentro, ribollano pensieri non liberali e non democratici.

Per quanto si possa intendere come voto di protesta, dare il proprio sostegno a persone che vanno al carnevale vestiti da nazisti o che parlano di rivedere il senso di colpa tedesco per la seconda guerra mondiale. criticano il Monumento delle vittime dell'Olocausto di Berlino e si fanno finanziare da Putin, significa dare loro una legittimità di esistenza che, se diventasse poi potere, non è chiaro sapere dove finirebbe. 

Non è finita. Dicendo Berlino è cambiata con questa accezione negativa, si intende, forse per la prima volta dalla riunificazione, che tutta la Germania è cambiata. E lo è. Berlino, in un momento se non buio, comunque in controluce, è diventata volente o nolente simbolo del Paese di cui è capitale e non la città meno tedesca di tutta la Germania. 

Vivo qui da marzo 2009 e questa è la mia sensazione. Sono curioso di conoscere la tua. Scrivimi, nel frattempo continuiamo con le altre notizie e consigli della settimana.

Andrea D’Addio dal blog Berlino Magazine info@berlinomagazine.com - 12 ottobre 2024

8 ottobre 2024

Germania: Piazza Wagenknecht per la pace

Militanti, delusi dalla sinistra, pro Pal e No war: a Berlino la manifestazione di Bsw contro l’escalation bellica. La star è Sahra, sul palco un po’ di Linke e Spd. Prova di campo largo?

di Sebastiano Canetta *

La Riunificazione di Sahra Wagenknecht. Piccolo report senza grandangolo del “campo-largo” di Berlino nel giorno della festa nazionale, provando a mettere a fuoco l’indefinito popolo della “pace, lavoro e welfare sociale” tornato a muoversi in movimento coordinato. Dal punto di vista politico rappresenta la massa critica della sinistra tedesca per la prima volta di nuovo insieme, perlomeno nel pezzo di percorso che appare possibile percorrere uniti.

Se l’Occidente passa altre linee rosse aumenta il rischio di guerra in Europa. Se si vuole una conferenza di pace seria, allora si deve invitare la Russia (Sahra Wagenknecht )

L’Ucraina ha diritto all’autodifesa. È necessario l’uso delle armi inviate dalla Germania proprio per raggiungere prima possibile la pace (Ralf Stegner Spd)


NELLA GERMANIA-INFELIX colata a picco dalla doppia guerra di Ucraina e Medio Oriente, con Volkswagen pronta a licenziare 30 mila operai, il governo Semaforo sfiduciato da due terzi dei cittadini e Afd diventato il secondo partito nazionale (a 11 mesi alle elezioni per il Bundestag), l’istantanea del manifestazione “Mai più la guerra” parte dal dialogo-battibecco tutt’altro che ideologico fra un impiegato di mezza età con la tessera della Spd contrario agli euromissili di Olaf Scholz, una maestra elementare entrata nel Bsw perché gli unici filo-Palestina e una pensionata della Linke rimasta senza se e ma dalla parte dei rifugiati.

Tre anime spontanee sparse sempre meno a caso fra le 25 mila persone che ieri hanno sfilato davanti alla Porta di Brandeburgo in direzione della Colonna della Vittoria esibendo i più disparati striscioni nonché i più diversi volti.
«Siamo qui per fermare l’escalation bellica»: parla veloce con l’accento della Pomerania a nome dell’intero trio l’impiegato che lavora alla municipalizzata pubblica con lo stipendio «ancora, per il momento, sicuro».

Geneticamente socialdemocratico – «una storia di famiglia da due generazioni» – non ne può più della deriva ultra-atlantista del leader del suo partito “indegno” non solo dell’eredità di Willy Brandt. «Fosse solo la sudditanza agli Usa. Bisogna fermare anche l’invio di armi tedesche a Kiev se vogliamo davvero la Pace», lo punzecchia l’insegnante tornata in piazza, dopo anni di astensionismo, con la nascita dell’Alleanza Sahra Wagenknecht. La stilettata al compagno di corteo tenuto ormai sottobraccio si riferisce al brevissimo discorso del deputato Spd Ralf Stegner salito sul palco del comizio finale poco prima della leader del Bsw e della rappresentante della Linke berlinese, Gesine Lötzsch, i tre volti politici ufficiali del piccolo-grande campo largo di Berlino.

CI VUOLE CORAGGIO per il “pacifista” della Spd, inevitabile incarnazione della maggioranza di governo e perciò costretto a ribadire non si capisce quanto di buon malgrado la «necessità dell’uso difensivo delle armi inviate dalla Germania proprio per raggiungere prima possibile la pace». Raccoglie un’autentica marea di fischi ma Stegner non demorde seppure debba alzare non poco il tono di voce per ricordare che «la Spd rimane comunque nel movimento della Pace».

QUANDO È IL TURNO di Wagenknecht scatta al contrario la standing-ovation. Lei tuona «Se l’Occidente passa altre linee rosse aumenta il rischio di guerra in Europa. Se si vuole una conferenza di pace seria, allora si deve invitare la Russia e il contesto del summit di Ramstein appare profondamente sbagliato. Meglio la Turchia della Germania come Stato neutrale» è la stoccata al governo Scholz, preso di mira anche sotto il profilo della ministra degli Esteri, Annalena Baerbock definita «un rischio per la sicurezza». Poi ringrazia Mikhail Gorbaciov (soltanto lui) per aver reso possibile la riunificazione (di cui si celebra la data trentaquattro anni dopo) mentre avverte che Israele va fermata però «è disumano esultare per i razzi lanciati dall’Iran».

In questo quadro l’unità della sinistra è un’impresa politica, anche se il “modello Berlino” rimane sostanzialmente la sola alternativa, come analizza la pensionata della Linke in corteo secondo cui «quando ci separiamo sulle questioni di base a vincere è solo Afd, che pure è contro il governo, la guerra e la bolletta raddoppiata grazie alla rivoluzione verde. Se non convinciamo i socialisti alla svolta pacifista non saremo in grado di incidere sullo stop alle armi e tanto meno sul negoziato per la pace».

L’argine all’ulteriore escalation – almeno in termini di voti alle urne – per adesso è solo la considerevole altezza boom di consenso per il Bsw. La festa nazionale per il “Giorno della Riunificazione” fra la Germania dell’Ovest e dell’Est, nell’anno prima delle elezioni per il rinnovo della cancelleria, dopo che Sahra Wagenknecht ha (quasi) conquistato il governo del Brandeburgo, corrisponde anche alla sua prima vera celebrazione pubblica come leader degli outsider della politica tedesca, prima ancora della primadonna di Afd, Alice Weidel.

L’EX CAPOGRUPPO della Linke ieri si è dimostrata capace di radunare il suo popolo al parco di Gleisderieck, simbolicamente l’area riqualificata da cima a fondo dalle vecchie e fatiscenti strutture cadute in disuso. A margine della manifestazione per la Pace la leader del Bsw ha provato ancora una volta la sua capacità di calamitare l’ago della bussola politica e mediatica del più importante Paese dell’Ue. Certamente puntandolo su di sé ma anche nella direzione diametralmente opposta al Nord indicato da Washington, Bruxelles e perfino Tel Aviv.

Ieri nella manifestazione snodatasi fra il Viale del 17 Giugno e la Yitzhak Rabin Strasse sventolavano le bandiere palestinesi vietate dalla Ragione di Stato e represse con massima forza dalla polizia. Questa volta, però, è risultato materialmente impossibile interrompere la demo autorizzata nonostante le vibranti proteste dell’ambasciatore israeliano a Berlino, già ampiamente scioccato dal voto di astensione della Germania all’Onu “contro” lo Stato Ebraico. Secondo il diplomatico di punta del governo Netanyahu nella Bundesrepublik «non bastano più le parole a favore della Ragione di Stato» elevata a totem indiscutibile dai tempi di Angela Merkel.

E MENTRE LA SPD è totalmente prigioniera della linea filo Tel Aviv, Wagenknecht ha preso fin da subito la difesa dei palestinesi distinguendosi non poco dalla Linke apparsa invece molto più timida nella condanna univoca e unanime al massacro sistematico di Gaza.

L’ala degli Anti-Deutsch – i sionisti di Sinistra – continua a rappresentare una corrente importante nella Linke specialmente a Berlino e Lipsia anche se numericamente sono in pochi. In buona sostanza, dal punto di vista della base della Sinistra, un conto sono le magliette del club sportivo del Maccabi orgogliosamente esibite nei social dalla sinistra pro-Israel, un altro paio di maniche sono gli emblemi della Israel Defence Force come minimo distonici alla richiesta di pace. Anche questo conta per il successo della colomba Sahra Wagenknecht.

nella foto: Berlino, la manifestazione a Gleisdreieck Park

* da il manifesto – 4 ottobre 2024

5 ottobre 2024

A proposto di migranti e campo largo - I silenzi della sinistra


di Luca Ricolfi *

Chi si augura che il centro-sinistra arrivi unito e preparato alle prossime elezioni politiche (previste per il 2027), forse dovrebbe nutrire qualche preoccupazione per i silenzi del Pd e dei Cinque Stelle in materia di politiche migratorie. Silenzi che sono divenuti assordanti nei giorni scorsi, quando Elly Schlein non ha speso nemmeno una parola sull’incontro fra Giorgia Meloni e Keir Starmer (premier laburista britannico), dal quale era emersa una notevole e imprevista convergenza di vedute in fatto di governo dei flussi migratori.

Quella sintonia ha spiazzato Elly Schlein e Conte, perché la sinistra che Starmer rappresenta, severa con gli immigrati e aperta alle ipotesi di “esternalizzazione” della questione migratoria (come il modello Albania di Meloni e Rama), è lontanissima dalla sinistra che Schlein sta cercando di mettere insieme con Cinque Stelle e Alleanza Verdi-Sinistra.

Ma il caso di Starmer non è isolato. La realtà è che in Europa da qualche anno stanno prendendo forma nuovi tipi di sinistra, fondamentalmente differenti da quella che, per decenni, è stata egemone nel Vecchio Continente.

Questi tipi inediti di sinistra si sono palesati poco per volta, a partire dal 2021, quando la Danimarca (governata dai socialdemocratici) ha cominciato a prendere in seria considerazione l’idea di affiancare alle norme molto severe già vigenti nuove procedure di trasferimento dei richiedenti asilo (verso il Ruanda) e dei detenuti stranieri (verso il Kosovo). Da allora i passaggi più significativi sono stati: nel Regno Unito, lo spostamento del partito laburista su posizioni legalitarie per opera di Keir Starmer, successore del massimalista Jeremy Corbyn; in Germania, la fondazione del partito di sinistra anti-migranti di Sahra Wagenknecht (BSW), nato da una costola della Linke (formazione di estrema sinistra); sempre in Germania, la recentissima spettacolare inversione a U della politica dell’SPD del cancelliere Scholtz che – specie dopo il recente attentato di Solingen – ha assunto tratti molto severi (promesse di rimpatrio degli irregolari, ripristino dei controlli alle frontiere); in Spagna, la sinistra socialista di Pedro Sanchez, che dopo l’esplosione degli arrivi dalla rotta atlantica (via isole Canarie), appare sempre più impegnata a rallentare le partenze e rafforzare i rimpatri.

Oltre a questi sviluppi, è il caso di ricordare la lettera alla Commissione Europea inviata a maggio di quest’anno dai governi (alcuni progressisti) di ben 15 paesi europei su 27, in cui si prospetta non solo un rafforzamento della politica dei rimpatri, ma pure la cosiddetta esternalizzazione delle frontiere (in stile Italia-Albania), con la creazione di hub in cui rinchiudere parte dei richiedenti asilo.

Che cosa c’è, alla base di queste metamorfosi all’interno del campo della sinistra?

Probabilmente non una cosa sola, e comunque non la medesima nei diversi paesi. Un fattore è sicuramente il recente (2023) aumento degli arrivi irregolari su specifiche rotte, un aumento che seguiva altri aumenti nei 3 anni precedenti. Un altro fattore è il moltiplicarsi di episodi di violenza o terrorismo messi in atto da stranieri. Ma il fattore cruciale, verosimilmente, sono i crescenti successi elettorali delle destre anti-immigrati nella maggior parte dei paesi europei, un trend che non può non preoccupare le forze di sinistra.

In alcuni paesi, i dirigenti della sinistra si stanno rendendo conto che la questione migratoria non può più essere elusa con formule – accoglienza, integrazione, diritti umani – tanto generose quanto incapaci di andare al nocciolo dei problemi. Che sempre più sovente non sono solo economici, o di sicurezza, ma sono di identità delle comunità locali, messe a dura prova dalla concentrazione di immigrati (spesso senza lavoro e senza fissa dimora) in specifiche porzioni del territorio nazionale, siano esse le grandi stazioni ferroviarie, i parchi urbani, le periferie delle città, i piccoli centri rurali. Un processo che può far sì che i nativi, specie se appartengono ai ceti bassi, si sentano “stranieri in patria”.

E in Italia?

Qui da noi la sinistra non prova nemmeno ad avviare una riflessione. Ripropone le solite formule, che aggirano il problema anziché affrontarlo. Non perde occasione per demonizzare l’unico politico di sinistra – Marco Minniti – che aveva provato a fare qualcosa (giusta o sbagliata che fosse). Soprattutto, non si chiede come mai, a due anni dal voto, i partiti di destra sono più forti che mai.

Si potrebbe pensare che sia solo cecità, o estrema convinzione di essere nel giusto, o che basti essere nel (presunto) giusto per vincere le elezioni. La mia impressione è che ci sia anche dell’altro. Forse Schlein e Conte si rendono conto che, ove toccassero sul serio il tema migratorio, il progetto del campo largo incontrerebbe le prime difficoltà vere. Tradizionalmente, infatti, le posizioni di Grillo e dei Cinque Stelle sono state sempre ondivaghe, e meno indulgenti di quelle del Pd (dopotutto, è a Di Maio che dobbiamo la formula delle ONG come “taxi del mare”). E questo per una ragione molto semplice: i cinque Stelle, a differenza del Pd, sono radicati nei ceti popolari, e oggi i partiti a base popolare tendono a diventare populisti, e in quanto tali ostili all’immigrazione. Possono adottare ideologie di destra o di sinistra, ma in entrambi i casi tendono a vedere l’immigrazione come un problema.

Può darsi che non parlare mai delle preoccupazioni popolari in tema di immigrazione e sicurezza, o ignorare le idee delle nuove sinistre securitarie in Europa, aiuti a tenere unito il campo largo. Ma resta il dubbio che, a differenza di quel che potrà succedere su altri temi (salario minimo legale e sanità), sulla questione migranti gli elettori progressisti possano non accontentarsi dei soliti slogan e delle solite formule politiche astratte.

* articolo uscito sul Messaggero il 23 settembre 2024

11 settembre 2024

Tre episodi in 15 giorni, rinnovabili sotto attacco in Sardegna

Transizione energetica. A fuoco 2mila pannelli fotovoltaici a Tuili, nel sud dell’isola. La presidente Todde: «Entro fine mese la legge sulle aree idonee». Ma i comitati per il No all’«invasione» hanno già raccolto 70mila firme, ne servivano 10mila

di Costantino Cossu *

Le fiamme si sono levate intorno alle 4 di notte di lunedì scorso e hanno distrutto duemila pannelli fotovoltaici in un impianto nelle campagne di Tuili, un piccolo paese del Sud Sardegna. L’incendio è senz’altro doloso: le telecamere di sorveglianza hanno ripreso tre uomini incappucciati mentre scavalcavano la rete di recinzione per poi spargere sui pannelli la benzina contenuta nelle taniche che avevano con sé, appiccare il fuoco e fuggire via lasciando le taniche sul terreno in bella vista. Un chiaro messaggio.

Sino a ieri mattina una squadra dei vigili del fuoco ha lavorato con una ruspa e con i camion per raccogliere i detriti e per spegnere gli ultimi focolai. Il rogo è stato alimentato da un forte vento di maestrale e ha velocemente avvolto i pannelli, che appartenevano alla società Greenvolt Power, una multinazionale polacca che a Tuili ha in progetto la realizzazione di tre parchi fotovoltaici. I pannelli andati a fuoco non erano ancora stati installati. I lavori di posa sarebbero iniziati tra circa un mese, ma adesso tutto è andato in fumo. Ancora da quantificare i danni.

SUL FRONTE delle rinnovabili la tensione è alta in Sardegna: alla fine di agosto un attentato incendiario è stato messo a segno durante la notte nel sito della Vestas a Villacidro, nel sud dell’isola, dov’è in costruzione un parco eolico oggetto di numerose proteste da parte dei comitati di base che nell’isola sono scesi in campo perché ritengono che la transizione dal fossile alle rinnovabili metta a rischio paesaggio e terreni agricoli e sia mossa da finalità puramente speculative.

Alcuni giorni prima dell’attentato a Villacidro, una pala eolica, installata sulla strada provinciale numero 30 tra Mamoiada e Gavoi, nel Nuorese, era stata danneggiata. Episodi che, uniti a quello decisamente più grave avvenuto a Tuili, segnalano una situazione di crescente malessere.

I COMITATI DI BASE manifestano quotidianamente nei territori e hanno avviato una raccolta di firme per una legge di iniziativa popolare che, se approvata, renderebbe di fatto nulla la transizione energetica in Sardegna. Il minimo di firme necessario (diecimila) è stato raggiunto in poche settimane. Ma si è andati oltre: al momento le persone che hanno firmato sono settantamila.

Organizzata dai comitati, il 24 agosto si è tenuta a Cagliari una manifestazione alla quale hanno aderito duemila persone. In piazza, davanti alla sede del consiglio regionale, a sfilare in corteo c’era anche Renato Soru, schierato sin dall’inizio, con il suo movimento Progetto Sardegna, contro le modalità, giudicate inefficaci e lesive degli interessi regionali, scelte dalla giunta sarda per realizzare la transizione energetica.

Con i comitati Alessandra Todde, alla guida di una maggioranza di Campo largo, mantiene aperto il dialogo. La presidente propone una road map verso l’eolico e il fotovoltaico in due step. Innanzitutto approvare entro fine mese la mappa delle aree idonee dove collocare pale e pannelli al livello minimo di 6,2 Gigawatt fissato dai decreti Draghi sulla transizione. In anticipo rispetto alla scadenza fissata per dicembre dal ministro Pichetto Fratin.

Subito dopo, definire un piano energetico che preveda, oltre le rinnovabili, altri tre obiettivi: la chiusura delle centrali a carbone di Porto Torres e di Portovesme; la costruzione di due rigassificatori per metanizzare la Sardegna, a oggi l’unica in Italia priva di una rete di distribuzione del gas; la creazione di una Agenzia sarda dell’energia per regolare il settore in base agli effettivi bisogni dell’isola. Sugli attentati Todde già dal primo episodio, quello nel Nuorese, ha espresso una dura condanna, richiamando l’attenzione sul pericolo che posizioni oltranziste sulle rinnovabili possano alimentare episodi di violenza.

CRITICHE VERSO la giunta Todde le posizioni delle associazioni ambientaliste riunite nell’isola sotto la sigla “Sardegna rinnovabile”: Wwf, Legambiente, Greenpeace Italia e Club Kyoto. Sono contrarie alla metanizzazione dell’unica regione italiana dove il metano è assente e chiedono che tutta l’energia necessaria per superare il fossile sia prodotta da energie rinnovabili, senza i ritardi imposti dalla Todde con la legge di moratoria impugnata di recente dalla Corte costituzionale.

nella foto: il rogo dei pannelli fotovoltaici a Tuili, in Sardegna - Vigili del fuoco

 * da il manifesto - 11 settembre 2024

30 agosto 2024

Germania: tempesta in arrivo

di  Ubaldo Villani-Lubelli *

Si fa molta fatica a riconoscere la Germania politicamente così divisa e in difficoltà. Domenica si vota in Sassonia e Turingia, poi in Brandeburgo. Si imporranno riflessioni: sulla Brandmauer, il cordone sanitario posto fin qui all'estrema destra; sulla forza di AfD e Bsw e sui partiti di governo che usciranno a pezzi dalle urne

Non siamo abituati a vedere la Germania politicamente così divisa e in difficoltà. Dopo gli anni della grande stabilità garantita da Angela Merkel, a Berlino hanno dovuto affrontare una serie di novità alle quali non si era preparati: una maggioranza di governo inedita (il primo governo Semaforo formato da socialdemocratici, verdi e liberali), la revisione delle relazioni con la Russia, l’inflazione crescente, la diminuzione del potere d’acquisto e una trasformazione significativa del quadro politico. Gli storici partiti di massa (Unione, Spd e Verdi) sono in crisi, l’estrema destra di Alternative für Deutschland è in continua ascesa e ora, per la prima volta, è nato un partito personale. Dalla scissione con la Linke (sinistra) si è costituito il nuovo partito della star mediatica Sahra Wagenknecht.

Si fa molta fatica a riconoscere la Germania e a orientarsi in questi nuovi sviluppi della politica tedesca. Difficile dire se si tratta di una crisi di sistema o di una profonda trasformazione. Certo è che la Germania si appresta ad assistere domenica alle elezioni in due Länder dell’est, la Sassonia e la Turingia, in una condizione di insicurezza e paura. A complicare ancora di più un quadro già di per sé incerto c’è stato anche l’attentato terrorista a Solingen. Non è stato il primo e non sarà l’ultimo in Germania, ma inevitabilmente non farà altro che portare acqua al mulino dei partiti di protesta che si presentano come alternativi al sistema di governo consolidato, ovvero Alternative für Deutschland (AfD) e il nuovo Bündnis Sarah Wagenknecht (Bsw).

Le elezioni in Turingia e Sassonia

Domenica si vota dunque in Turingia e in Sassonia (e il 22 settembre in Brandeburgo) e tutti questi elementi potrebbero confluire in un risultato che rischia di creare un terremoto politico. In entrambi i Länder di Turingia e Sassonia lo scenario più probabile è quello dell’impossibilità di costituire un governo senza il contributo o dell’estrema destra di AfD o della nuova sinistra conservatrice di Wagenknecht. Ci sarà, molto probabilmente, anche un risultato deludente per i partiti al governo (Spd, verdi e liberali) ed inoltre non è assolutamente certo che la Cdu sarà il primo partito.

La situazione è particolarmente complessa in Turingia dove AfD è attestata al 29-30 per cento, la Cdu al 21-23, la Bsw al 18-20 e la Linke al 13-14 per cento. Molto più distanti i socialdemocratici con il 6, mentre verdi e liberali non dovrebbero superare la soglia per eleggere i propri rappresentanti nel parlamento regionale. Uno scenario del genere renderebbe una vera impresa di ingegneria politica la formazione del governo regionale. C’è anche da ricordare che la Turingia già da cinque anni è governato da un governo di minoranza tra Linke, socialdemocratici e verdi con ministro-presidente Bodo Ramelow (Linke, sinistra). Il fattore del tutto inedito e potenzialmente esplosivo ovviamente è la forza che assumerebbero due partiti estremisti come AfD e Bsw la cui affidabilità di governo non è stata mai ancora testata.

Diversa solo in parte la situazione in Sassonia, un Land che con i suoi quattro milioni di abitanti è quasi il doppio rispetto alla Turingia. Qui la Cdu e AfD si giocheranno la partita fino alla fine per il primo posto. Entrambi sono attestati intorno al 30 per cento con un leggero vantaggio per i cristiano-democratici. Anche in Sassonia la Bsw andrà presumibilmente molto bene (10-12 per cento). Più indietro i socialdemocratici, i Verdi e la Linke che dovranno lottare per superare la soglia di sbarramento del 5 per cento. In Sassonia attualmente governa la Cdu con Michael Kretschmer (in realtà molto stimato) in una coalizione-Kenya (Cdu-Spd-Verdi). Nonostante la popolarità di Michael Kretschmer la maggioranza è decisamente in bilico.

Le possibili conseguenze del voto

Le conseguenze di questo voto non saranno esclusivamente regionali ma imporranno una riflessione più generale che riguarda in primo luogo la cosiddetta Brandmauer, letteralmente muro spartifuoco, che impedisce ai partiti democratici di governare con l’estrema destra di AfD. Fino a quando potrà reggere questo muro? Fino a quando si potrà scegliere consapevolmente di non scendere a compromessi con AfD? Cosa succederà se non si potrà costituire un governo senza AfD? Al momento non c’è una risposta a queste domande, ma è certo che queste due elezioni imporranno una riflessione soprattutto all’interno della CDU.

La seconda questione riguarda ovviamente i partiti di governo che molto probabilmente usciranno a pezzi da questa tornata elettorale. Il governo Semaforo aveva iniziato con un programma ambizioso sebbene fosse chiaro sin dall’inizio che le tre forze di governo non potessero costituire un progetto politico di lungo periodo. Si trattava una coalizione necessaria e contingente a dare alla Repubblica federale un governo. Le differenze nei programmi ma anche culturali tra i leader dei due partiti sono risultate immediatamente evidenti. La grande crisi energetica causata dalla guerra in Ucraina ha fatto il resto che si è comunque aggiunta su un tessuto sociale già fortemente provato dalle conseguenze della gestione dei flussi migratori.

Come reazione all’attentato di Solingen, il governo di Olaf Scholz (Spd) ha intrapreso immediatamente misure significative come una decisa stretta sull’accoglienza dei migranti cosiddetti dublinanti (ovvero coloro che avrebbero dovuto fare richiesta di asilo nel paese di primo approdo ma che in realtà proseguono verso altri paesi, come il caso appunto dell’attentatore di Solingen) e saranno ridotti al minimo anche i servizi previsti. Sono state inoltre decise misure molto restrittive sull’uso delle armi e il divieto assoluto di portare coltelli a feste pubbliche, manifestazioni sportive, fiere e qualunque tipo di manifestazione pubblica nonché la possibilità di estendere il divieto anche alle stazioni e ai treni a lunga percorrenza.

L’impressione è che si tratti di misure condivise, ma forse un po’ tardive a salvare le elezioni di domenica.

* da huffingtonpost.it   -  30 Agosto 2024

 

L’autoritario Macron e la crisi del presidenzialismo

Francia. Da diversi anni in Francia non ci sono più né il bipolarismo destra/sinistra né una maggioranza chiara e netta. Il presidente però non vuole prenderne atto

di Mario Volpi *

La disciplina della forma di governo nella Costituzione francese è ambigua. Da un lato il presidente della Repubblica, eletto dal popolo dal 1962, è titolare di poteri privi di controfirma ministeriale, compresa la nomina del primo ministro, dall’altro il governo, politicamente responsabile nei confronti del parlamento, ha il potere di determinare la politica della nazione e il primo ministro quello di dirigere l’azione del governo.

La lettura dominante ultra-presidenziale della Costituzione ha attribuito al presidente la determinazione dell’indirizzo politico trasformando il primo ministro in un mero esecutore. Ma si è trattato di un presidenzialismo «ad eccezione coabitazionista» in quanto in tre periodi (1986/88, 1993/95 e per l’intera legislatura 1997/2002) il presidente ha dovuto nominare un primo ministro e un governo espressione di una maggioranza parlamentare di opposto orientamento politico.

L’ULTRA-PRESIDENZIALISMO è stata accentuato dalle riforme del 2000/01 che hanno equiparato a cinque anni la durata in carica del presidente e dell’Assemblea nazionale e posposto di due mesi le elezioni parlamentari rispetto a quelle presidenziali, il che tra il 2002 e il 2017 ha determinato un effetto di trascinamento delle seconde sulle prime, caratterizzate da un crollo della partecipazione popolare (poco più del 43% nel 2017 e del 46% nel 2022). Macron ha accentuato la personalizzazione, come dimostra la decisione dello scioglimento anticipato dell’Assemblea nazionale annunciata la sera delle elezioni europee dopo avere non consultato (come prevede la Costituzione), ma meramente informato il primo ministro e i presidenti delle Camere.

NEL FRATTEMPO sono entrati in crisi i due fattori che garantivano la stabilità dalla Quinta Repubblica: dal 2017 il bipolarismo droite/gauche sostituito da un sistema politico multipolare, nel 2022 il fait majoritaire, che grazie al sistema elettorale maggioritario a doppio turno produceva una maggioranza parlamentare di regola fedele al presidente. Così nel 2022 la coalizione macroniana non ha avuto la maggioranza assoluta dei seggi e il presidente ha nominato un governo di minoranza che ha fatto ricorso a rigidi strumenti procedurali per imporre il sostegno parlamentare alle politiche presidenziali. La situazione scaturita dalle elezioni straordinarie del 2024 è molto diversa: la coalizione governativa ha dimezzato i suoi deputati, vi è stata una crescita del Rassemblement national che non ha conquistato la maggioranza assoluta grazie alla desistenza praticata al secondo turno elettorale, il Nouveau Front populaire ha avuto la maggioranza relativa anche se lontana da quella assoluta.
Occorre quindi ricorrere ad una logica parlamentare con la formazione di un governo di coalizione, che aggreghi una maggioranza o anche minoritario che ricerchi il consenso sui singoli provvedimenti proposti, e determini la politica nazionale.

IN QUESTO CONTESTO Macron che ha perduto le elezioni si comporta come se fosse libero di scegliere il governo che preferisce. Quindi il ricorso organico alle consultazioni dei partiti parlamentari è sfociato nel rifiuto di nominare la candidata indicata all’unanimità dalle sinistre, anche al prezzo della non presenza come ministri di esponenti della France insoumise. Macron punta a dare vita ad una coalizione dei perdenti (centristi e gollisti) e a una rottura del Nfp, che contrasterebbe con la volontà manifestata dal popolo di sinistra. In sostanza ripropone una lettura presidenzialista della Costituzione in un contesto in cui è in evidente crisi e si impone quella parlamentare che non può prescindere dall’applicazione rigorosa delle disposizioni costituzionali che gli danno il potere di nominare il primo ministro ma alla luce del risultato delle elezioni dell’Assemblea.

Difficilmente la risposta può essere la destituzione del presidente, ventilata da Mélenchon, che richiede la maggioranza dei due terzi dei membri prima delle due Camere poi del parlamento costituito in Alta Corte. Piuttosto vanno prese in seria considerazione le proposte avanzate in Francia, anche da vari costituzionalisti, di adozione di un sistema elettorale proporzionale per l’Assemblea nazionale e di abolizione della elezione popolare del presidente della Repubblica, ritenute più corrispondenti al nuovo contesto politico e a un funzionamento parlamentare della forma di governo.

nella foto: Un discorso alla nazione di Emmanuel Macron sugli schermi di un bar

·        da il manifesto - 29 agosto 2024

28 agosto 2024

Tra Parigi e Roma: Democrazia e marchingegni elettorali

 di Andrea Fabozzi ( 7 luglio 2024) *

Preso in mezzo tra le feste nazionali di Stati uniti e Francia, questo 7 luglio condizionerà il destino delle democrazie occidentali. Sulla soglia del governo di Parigi c’è un partito di originaria ispirazione fascista – i successivi camuffamenti non hanno toccato la fiamma, mutuata dall’Italia dove arde già a palazzo Chigi. Negli Usa l’aspirante dittatore, parole sue, avrà la sua chance tra quattro mesi e i “democratici” stanno facendo di tutto per dargli una mano (più o meno come hanno fatto Macron in Francia e il centrosinistra qui da noi).

Il suffragio universale, per il lungo dopoguerra considerato come sostanziale sinonimo della democrazia e come tale ancora spacciato dagli eredi degli sconfitti – «potere al popolo, non ai giochi di palazzo», ripete Meloni che sogna l’investitura diretta – apre le porte al suo svuotamento. Ne ha parlato qualche giorno fa il presidente Mattarella in un discorso importante, preoccupato e consapevole del passaggio storico. La democrazia, ha detto, è la realizzazione concreta dei diritti nella vita delle persone. «Non si esaurisce nelle sue norme di funzionamento» e non si «consuma» esprimendo il voto nelle urne «nelle occasioni elettorali». Come vorrebbero al contrario tutti quelli che da anni hanno aperto la caccia alle libertà di associazione e manifestazione, ai partiti e ai sindacati, alla libertà di stampa. Pensatori “liberali” prima che governanti di destra. Ma il presidente Mattarella ha detto anche di più. Ha aggiunto che a smentire la coincidenza tra suffragio universale e democrazia piena concorrono anche «marchingegni che alterano la rappresentatività e la volontà degli elettori».

Di questa alterazione provocata dalle leggi elettorali si è lungamente giovata la quinta Repubblica francese, tenendo fuori dal parlamento i neofascisti del Front national grazie al doppio turno di collegio e al principio accettato da tutte le forze democratiche del “barrage” repubblicano.

Ma il partito di Le Pen è cresciuto come dimostra sui giornali francesi la mappa dei risultati del primo turno dominata dal marrone: è arrivato primo nel 52% dei collegi con solo il 33% del voto popolare. C’è oggi il secondo turno, quello dove dovrebbe alzarsi la barriera. Ma è indebolita dagli anni in cui Macron ha inseguito le politiche della destra e dai giorni in cui è stato ambiguo su Le Pen e ha preferito attaccare il Fronte popolare. Per cui sapremo solo stasera se nei testa a testa decisivi avrà pesato più la disgraziata normalizzazione dei fascisti o il sussulto unitario della sinistra e di molti candidati centristi più saggi, o più preoccupati, di Macron.

Anche il Labour di Starmer nel Regno unito ha raccolto, esattamente come il Rassemblement national in Francia, il 33% del voto popolare. Il brutale sistema elettorale britannico gli ha però consegnato immediatamente il 63% dei parlamentari, un premio di quasi il cento percento. Di conseguenza gli altri partiti sono stati penalizzati in seggi rispetto al consenso popolare, tutti ma soprattutto il partito di Farage che con oltre il 14% dei voti ha conquistato lo 0,7% dei parlamentari. Un’alterazione, si potrebbe pensare, in questo caso benvenuta ma soprattutto ben accetta dagli elettori inglesi. Il maggioritario secco di collegio da quelle parti è infatti un dogma intoccabile, i sudditi della corona continuando a vedere più il suo unico pregio (il legame dell’eletto con il collegio, messo platealmente in scena nella notte della proclamazione) che l’enorme difetto di ignorare il consenso effettivo dei partiti e negare l’uguaglianza del voto.

Non è naturalmente solo questione di tecnica elettorale: dietro tutti i sistemi elettorali maggioritari (quelli britannico è il più puro) c’è l’idea che le istanze popolari non vanno rappresentate ma semplificate. Tagliando fuori gli estremi almeno fino a quando, la Francia e prima l’Italia insegnano, gli estremi non si presentano con una veste meno spaventosa, seguendo i “moderati” che per tempo hanno sdoganato le loro idee. Sempre più spesso, l’astensione assume così i tratti di accettazione delle regole del gioco di una consapevole e rassegnata quasi maggioranza di elettori destinati a non poter incidere, più che di minoritario gesto di protesta. La percentuale di votanti nel Regno unito è stata molto bassa: 60%. Appena più alta l’affluenza in Italia alle ultime politiche (63%), quelle del 2022 quando a consegnare la vittoria in seggi alla coalizione guidata da Meloni è stato anche da noi un grande premio di maggioranza.

Nel nostro caso, siamo italiani, non dichiarato e ben nascosto nelle pieghe della legge elettorale ma comunque capace di consegnare quasi il 60% dei deputati al centrodestra a fronte di poco meno del 44% di voti popolari. Un più 16% grazie al quale, e solo grazie al quale, Meloni non solo governa ma sta anche provando a cambiare Costituzione e forma di governo. Anche qui sta qui l’attualità del monito del presidente Mattarella. La nostra destra infatti non si accontenta dell’elezione diretta, unico caso al mondo, del premier onnipotente. Vuole che sia eletto da una minoranza di elettori (minoranza della minoranza al tempo delle alte astensioni). Quello cioè che Meloni e compagnia stanno già provando a fare per l’elezione del sindaco, incoronare il primo arrivato anche solo con il 40% eliminando il fastidio dei ballottaggio (fastidio per loro, che in genere perdono), immaginano di replicarlo per il capo del governo. Del resto è dai comuni che è partita la moda verticista che poi si è imposta nel nostro paese. Stabilito che sarà in Costituzione il diritto al premio e a una maggioranza garantita per il primo classificato, diventerà assai facile con legge ordinaria disegnare il vestito su misura delle ambizioni della futura candidata, notoriamente non modeste. Un’altra legge elettorale, un altro «marchingegno», che da strumento di attuazione della democrazia si trasforma nella sua antitesi.

* da il manifesto - 7 luglio 2024

22 agosto 2024

Gli effetti delle ondate di calore sulla salute mentale

di Angelo Romano *

Un  “killer silenzioso”. Così i medici hanno definito le ondate di calore perché mietono molte più vittime di quanto la maggior parte delle persone si renda conto. E hanno impatti sui corpi e sulla salute mentale.


Secondo le Nazioni Unite, 2,4 miliardi di persone nel mondo sono minacciate da “ondate di calore sempre più gravi, causate in gran parte da una crisi climatica indotta dai combustibili fossili”.

Uno studio pubblicato recentemente su Nature Medicine ha rilevato che nel 2023 – l'anno più caldo mai registrato anche se gli scienziati prevedono che il 2024 prenderà presto il suo posto – le ondate di calore, aggravate dall’inquinamento da anidride carbonica, hanno ucciso quasi 50mila persone in Europa. E il tasso di mortalità sarebbe stato dell’80% più alto se le persone non si fossero adattate all'aumento delle temperature negli ultimi due decenni. Questo significa che gli sforzi compiuti per adattare le società alle ondate di calore sono efficaci, spiega al Guardian Elisa Gallo, epidemiologa ambientale presso ISGlobal e autrice principale dello studio. “Ma il numero di decessi legati al caldo è ancora troppo alto e l’Europa si sta riscaldando a un ritmo doppio rispetto alla media globale: non possiamo dormire sugli allori”.

Come già rilevato dall’ultimo rapporto del Gruppo intergovernativo di esperti sul cambiamento climatico (IPCC) delle Nazioni Unite, le ondate di calore in Europa stanno diventando più intense, più lunghe e più frequenti. Entro il 2050, prosegue il rapporto, circa la metà della popolazione europea potrebbe essere esposta a un rischio elevato o molto elevato di stress da ondate di calore durante l'estate. 

“L'adattamento all'aumento delle temperature ha svolto un ruolo cruciale nella prevenzione della mortalità in Europa, ma rimane insufficiente”, ha aggiunto Dominic Royé, ricercatore presso la Climate Research Foundation, che non ha partecipato allo studio.

“Il caldo estremo sta avendo un impatto estremo sulle persone e sul pianeta. Il mondo deve raccogliere la sfida dell'aumento delle temperature”, ha affermato il mese scorso il Segretario generale dell'ONU, António Guterres, esortando a una maggiore cooperazione internazionale. Guterres ha chiesto di intervenire in quattro aree: 1) Prendersi cura delle persone vulnerabili; 2) Proteggere i lavoratori; 3) Utilizzare i dati e le ricerche scientifiche per incrementare la capacità di adattamento; 4) Limitare l'aumento della temperatura globale a 1,5°C sostituendo i combustibili fossili con le energie rinnovabili.

Gli scienziati sostengono che i governi possono proteggere le persone dalle ondate di calore progettando città fresche con più parchi e meno cemento, istituendo sistemi di allerta precoce per avvertire le persone del pericolo imminente e rafforzando i sistemi sanitari in modo che i medici e gli infermieri non siano costretti a sovraccaricarsi quando le temperature salgono.

Ma anche le azioni individuali, come stare in casa e bere acqua, hanno un forte effetto sul numero di morti. Controllare i vicini e i parenti anziani che vivono da soli può fare la differenza. Il dottor Santi Di Pietro, assistente alla cattedra di medicina d'urgenza dell'Università di Pavia, ha affermato che i suoi colleghi curano più pazienti al giorno di quanti ne curassero all'inizio di gennaio durante la stagione influenzale.

“Il cambiamento climatico deve essere considerato un problema di salute”, spiega ancora Gallo. Anche sui luoghi di lavoro. 

Secondo un rapporto dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro (ILO), oltre il 70% della forza lavoro mondiale è a rischio di morte o malanni a causa del caldo estremo. Quasi 23 milioni di infortuni sul lavoro in tutto il mondo sono causati dal caldo eccessivo.

L’Africa (93%) e la penisola arabica (83%) sono le aree dove la forza lavoro è maggiormente esposta alle ondate di calore. Europa e Asia centrale sono invece le regioni dove il rischio di caldo estremo sta aumentando più rapidamente che in qualsiasi altra parte del mondo, con un incremento di oltre il 17% dal 2020. Il rapporto prevede che le ondate di calore provocheranno circa 1,6 milioni di vittime a livello globale entro il 2050 e che il Sud-Est asiatico potrebbe essere tra le regioni più colpite.

A lungo termine, i lavoratori sviluppano malattie croniche gravi e debilitanti, che colpiscono il sistema cardiovascolare e respiratorio e i reni. Sempre secondo l’ILO, 26,2 milioni di persone soffrono di malattie renali croniche a causa dello stress da caldo sul posto di lavoro.

Le categorie più a rischio sono, in particolare, i vigili del fuoco, i panettieri, gli agricoltori, gli operai edili, i minatori, gli addetti alle caldaie, gli operai di fabbrica. I lavoratori d’età pari o superiore a 65 anni, in sovrappeso, affette da malattie cardiache o da ipertensione arteriosa, sono maggiormente a rischio.

Uno degli aspetti meno dibattuti è quello relativo, infine, agli impatti delle ondate di calore sulla salute mentale. Negli ultimi anni, le discussioni sull'impatto dei cambiamenti climatici sulla salute mentale si sono concentrate sull’eco ansia, un termine che indica la preoccupazione, la paura o l’ansia cronica legata al destino del pianeta a per via di gravi eventi climatici. 

Meno si parla di alcuni filoni di ricerca che stanno cercando di comprendere meglio gli effetti dei cambiamenti climatici, in particolare il caldo estremo, sulla salute mentale. Tra questi, anche l’ultimo rapporto dell’IPCC, secondo il quale l'aumento delle temperature globali ha “influenzato negativamente” la salute mentale nelle regioni di tutto il mondo. 

In generale, il caldo e il disagio possono influire sull'umore di una persona, portandola a sentirsi più irritabile e stressata con effetti a catena sul comportamento. Un numero crescente di ricerche collegano il caldo estremo a un aumento dei comportamenti violenti

Il caldo estremo può avere implicazioni ancora più significative sul sonno. Le ricerche dimostrano che il riscaldamento notturno sta peggiorando la qualità e le ore di sonno a livello globale. Giorni o settimane di sonno in stanze troppo calde possono non solo aggravare condizioni croniche come il diabete e le malattie cardiache, ma anche influenzare negativamente i disturbi psichiatrici

Tutti questi aspetti sono esacerbati per chi ha problemi di salute mentale. In questi casi, le ricerche hanno individuato un aumento dei ricoveri in ospedale di persone con problemi di salute mentale e anche un rischio maggiore di morire durante i periodi di alte temperature. 

Tuttavia, restano ancora tante le lacune nella comprensione delle interazioni biologiche, psicologiche, sociali e ambientali tra salute mentale e calore, spiega Alessandro Massazza, project advisor su cambiamento climatico e salute mentale presso Wellcome, una fondazione che si occupa di salute mentale, malattie infettive e clima. Le ricerche sono ancora sporadiche e limitate e, con esse, anche le politiche dei governi: la salute mentale è a malapena presente negli impegni relativi al clima in tutto il mondo.

Attualmente, solo il 3% degli impegni climatici presentati dai governi nazionali nell'ambito dell'Accordo di Parigi menziona la salute mentale, prosegue Massazza. L'Australia Meridionale è uno dei pochi Stati che prevede un supporto mirato per i gruppi a rischio, compresi quelli di persone affette da patologie mentali. Anche le politiche basate sulla natura, che migliorano l'accesso agli spazi verdi e blu, e le politiche dei trasporti che incoraggiano l’uso di mezzi di locomozione lenti, come le biciclette, hanno dimostrato di avere benefici per la salute mentale e l'ambiente.

“Una migliore comprensione di come e perché il caldo estremo ha un impatto negativo sulla salute mentale – conclude Massazza – sarà essenziale per realizzare un mondo in cui nessuno sia bloccato da problemi di salute mentale, anche nel contesto di un clima che cambia”.

 * da valigiablu.it - 14 Agosto 2024

19 agosto 2024

Qualche proposta per costruire l’alternativa e vivere felici

 di Massimo Marino

1  Quattro miliardi di elettori dovrebbero votare durante l’ anno in corso per rinnovare i propri governanti. E potrebbero essere di più vista l’instabilità diffusa in varie aree del pianeta. Un appuntamento affollato mai sfiorato  nella storia dell’umanità che ci costringe a osservare gli avvenimenti di questi dodici mesi con attenzione, distogliere un po' di energie  dalle nostre cose del quotidiano e riflettere con maggiore impegno per capire dove stiamo andando. Perché, che ci piaccia o no, che ci interessi o no, alla fine di questo appuntamento della storia non saremo probabilmente più nel pianeta di questi ultimi decenni del dopoguerra.  Non è epoca di stabilità, anzi la tendenza al cambiamento, dal clima, alla politica, alla spinta alla guerra, alle migrazioni, alle disuguaglianze, sembra farsi più forte. Basti pensare all’appuntamento singolare e preoccupante delle prossime elezioni di novembre in USA. Per chi si sente a disagio in questo scenario precario ma vorrebbe dei cambiamenti radicali  si fa più forte la domanda: ma dove stiamo andando e quale strade abbiamo per percorrere una alternativa ?  

2 Parecchi appuntamenti li abbiamo già superati: fra i più rilevanti le elezioni in Russia,  in India e in Iran, le elezioni europee in 28 nazioni, quelle recenti in Gran Bretagna e Francia, in Bangladesh, Indonesia  e Pakistan, in Messico e Brasile, le ultime in Venezuela. In vari paesi, dalla Russia all’Iran fino al Venezuela la validità stessa del voto e dei risultati è già stata fortemente contestata. Il dato prevalente e sconfortante degli ultimi anni è che molte figure istituzionali o presidenziali assumono crescenti caratteristiche autoritarie abbandonando a volte apertamente qualunque parvenza democratica.

Anche in molti  paesi considerati “democratici” il proliferare negli ultimi decenni di sistemi  e regole di tipo maggioritario fortemente distorsive, in genere debolmente giustificate da obiettivi di stabilità, impediscono una lineare e libera espressione delle scelte degli elettori che solo vagamente percepiscono di essere privati del diritto di veder rappresentata la scelta dei propri rappresentanti in modo proporzionale e regolato con trasparenza. E’ un fatto che la tendenza all’astensione sia ormai diffusa.  Forme di presidenzialismo autoritarie, collegi di voto uninominali, premi di maggioranza, coalizioni prevoto forzate con quorum differenziato per chi sta fuori o dentro le coalizioni che a volte non sono attuate dopo il voto, regole di voto diverse in regioni diverse o collegi speciali, doppi turni e ballottaggi a due o multipli, possibilità di voto disgiunto su due diverse aggregazioni, limiti di mandato multipli dichiarati e non rispettati. Solo apparentemente si tratta di uno strampalato elenco di “ regolette “ che, ho ben chiaro, non sollevano l’interesse di molti che a volte neppure ne conoscono gli effetti. In realtà tutte convergono verso un unico obiettivo: distorcere e forzare l’espressione libera del voto e far saltare la proporzionalità fra i voti espressi e i seggi ottenuti. In definitiva è considerato accettabile invalidare una parte più o meno rilevante dei voti espressi ( spesso si tratta di molti milioni di voti)  e  riassegnarli a qualcun altro, spesso  il diretto avversario. In molte realtà vige un tacito accordo fra due poli che occupano spazi apparentemente contrapposti che per garantire la propria eterna sopravvivenza soffocano ogni nuovo protagonista e qualunque reale alternativa ( lo chiamano bipolarismo e democrazia dell’alternanza).  Spesso ignoriamo o dimentichiamo le conseguenze di questo imbroglio, diffuso in parecchi paesi “democratici”,  che spesso viene giustificato, da destre e sinistre varie, dal falso obiettivo di garantire la stabilità. Vuole invece impedire o ridimensionare una vera democrazia partecipata e qualunque cambiamento democratico. A rischio di annoiare faccio solo qualche esempio:

- gli elettori degli Usa da 240 anni non hanno la concreta possibilità di votare altro che i democratici o i repubblicani. In un paese di 350 milioni di abitanti, dominato dal potere assoluto di una decina di soggetti economici e finanziari,  forse  il più potente del mondo, multireligioso, multirazziale, baluardo dell’occidente,  sarebbe naturale la presenza di 5 o anche 10 partiti. Invece è praticamente resa impossibile anche solo la esistenza stabile di un terzo partito. Con le elezioni uninominali, dove ognuno dei 50 stati è un collegio con un unico soggetto vincitore,  a novembre si potrebbe tranquillamente circoscrivere il voto a 6-7 stati perché in almeno una quarantina già oggi è chiaro chi verrà eletto. Il “ voto popolare “, come viene chiamata la somma dei votanti, non ha alcun rilievo ed è già successo che il Presidente eletto non sia quello più votato ma dipenda da qualche migliaio di voti conquistati, rubati o comprati in una o due  contee sperdute del paese.

- nelle recenti elezioni politiche in Gran Bretagna basate su 650 collegi uninominali i laburisti, pur con un aumento irrilevante dei consensi hanno “ stravinto” con un esorbitante aumento dei seggi rispetto a quelli che avrebbero dovuto ottenere in proporzione ai voti. Con questo sistema aberrante basato su un bipolarismo inventato e tutelato da conservatori e laburisti  può succedere di tutto. Ad esempio i verdi, che in questa occasione hanno triplicato i propri voti, hanno ottenuto 4 eletti invece di 44.

- nelle recenti legislative in Francia, anticipate da Macron per contenere la dissoluzione del proprio centrino confindustriale antilepenista e antisinistra, i collegi uninominali con doppio turno imposti dagli anni ’60 con la nascita della “quinta repubblica” di De Gaulle, costringono all’invenzione di coalizioni dell’ultima ora.  Semipresidenzialismo e maggioritario deformano il sistema politico con l’aumento della instabilità, la crescita del polo della destra estrema, ogni volta alla sfida di prendere un voto in più nel collegio, ed una caotica presenza di aggregazioni instabili che non hanno basi solide di unione. Si impedisce da anni il ritorno ad un sistema più serio di tipo proporzionale ( “la sesta repubblica” ) che socialisti e macroniani alla fine boicottano, con il tacito assenso della destra. Il risultato di questo ormai insopportabile pasticcio è palese ed al di là di facili trionfalismi da fronte popolare è arduo valutare chi un mese fa abbia vinto o perso le ultime elezioni francesi, mentre Macron, noto come il politico più odiato di Francia, è sempre lì. 

- è bene ricordare che l’attuale centrodestra che governa l’Italia è il prodotto dei collegi uninominali del rosatellum,  inventati da PD e CDX prima delle politiche del  2018 immaginando di contenere così il successo travolgente del M5Stelle e che invece regalano oggi  l’Italia ad un minoritario destracentro dal settembre 2022. Se si fosse rispettato il  voto in modo proporzionale, con un opportuno quorum o con le semplici regole delle elezioni europee, il governo Meloni non sarebbe mai nato perché non ha alcuna maggioranza nel paese ( 12 milioni di elettori su 50).  

Nessuna alternativa è possibile, nessun processo costituente sta in piedi, nessuna democrazia partecipata, nessuna tutela dei principi costituzionali è praticabile nel momento in cui contro le vocazioni maggioritarie, autoritarie e presidenzialiste non si apre un fronte comune che difenda il sistema proporzionale ( senza premi, coalizioni prevoto, collegi uninominali, doppi turni) ragionevolmente limitato solo da un quorum sufficientemente elevato,  che non ha nulla a che fare con il “proporzionale puro“ senza quorum. Si favorirebbero nuove aggregazioni stabili e mature, e sarebbe anche più facile esercitare proposte di alternativa che sono praticamente assenti dalla scena oggi dominata da frammentazione, subalternità e trasformismo. In Italia come in Francia o Gran Bretagna questo è l’unico “fronte popolare” davvero necessario per difendere le democrazie occidentali che appassiscono nel rischio della guerra, della crisi climatica, dell’autoritarismo, senza protagonisti alternativi che riescano a cambiare strada.

3   negli ultimi dieci anni ho seguito con una particolare attenzione l’evoluzione di tre esperienze politiche, tutte nell’occidente europeo, che in forme diverse fra loro hanno avuto un ruolo di rilievo nel tentativo di costruire una alternativa culturale, sociale e istituzionale che superasse le vecchie sovrastrutture politiche organizzate nate alla conclusione della seconda guerra mondiale: Il M5Stelle in Italia, i Verdi in Germania, Podemos in Spagna. Tre realtà che, viste dall’alto,  hanno avuto tantissimo in comune: l’attenzione alla crisi sociale e ambientale, la dichiarata volontà di lotta alla corruzione, il ripudio della violenza e della guerra nella dialettica sociale e internazionale, la scelta della convivenza e della tolleranza  interreligiosa e interetnica, ma soprattutto la dichiarata volontà di costruire una alternativa all’intero sistema politico del dopoguerra.

Certo  su tutt’altri piani  il movimento per il clima dietro Greta  Thunberg, l’esperienza di convivenza curda-interetnica del Rojava  e delle donne dell’YPA, la fase iniziale dei gilets jaunes in Francia sono stati fenomeni, come vari altri, di un rilievo importante. Non dimenticando le pluriennali esternazioni per la giustizia sociale di Papa Francesco. Ma non hanno sconfitto le aggregazioni che impediscono qualunque cambiamento. A mio parere queste tre esperienze politico-istituzionali nell’intero pianeta hanno avuto invece un ruolo di rilievo  particolarmente  significativo.

Questi tre attori politici dell’alternativa ci hanno illusi.  

In momenti diversi hanno sfiorato  l’egemonia sul piano elettorale come protagonisti di governo nel loro paese con la promulgazione di atti di legislazione  di riformismo radicale nel campo della tutela ambientale, della giustizia sociale, della denuncia della crisi del sistema politico. Tutti e tre hanno subito un pesante attacco, che non ha precedenti nel dopoguerra, da diverse e anche opposte parti politiche con il chiaro obiettivo di ridimensionarne o azzerarne il ruolo e rendere inefficaci le loro proposte di maggior rilievo. Tutti e tre vivono oggi una fase di   grande crisi che rischia di cancellarli dalla scena politica o renderli ininfluenti. E’ necessario capire perché e cosa si può fare.

Il M5Stelle, quello che ne resta dopo molteplici defezioni e sconfitte, dichiara l’impegnativa intenzione di promuovere in autunno una fase costituente con il rilevante obiettivo di attuare nuove forme di democrazia partecipata ( una maturazione della democrazia diretta nella quale  i sostenitori dovrebbero decidere cosa e come rifondare forme  e contenuti della propria azione). Sostengo da tempo che il dramma dei 5stelle non è nel non comprendere le ragioni della sconfitta ma nel non avere mai compreso le ragioni reali del loro travolgente successo. Il progressivo ridimensionamento elettorale ( dagli 11 milioni nel 2018 ai 2,3 delle recenti europee), la disgregazione nel territorio dove oggi i gruppi locali ufficiali risultano 300 su 8000 comuni, gli abbandoni che continuano, mi sembrano la conseguenza della  difficoltà a mantenere la loro connotazione genetica che si è espressa con successo fuori dagli schemi destra-sinistra tradizionali.  Diventa incerto il proprio riformismo radicale che non può che stare al centro della società, avere caratteristiche di aggregazione maggioritaria e costruire le indispensabili alleanze e mediazioni  solo su chiari impegni di programma. Un progetto meno difficile di quanto sembri che però non può essere ridotto ad una indefinita vocazione progressista o di qualunque altro tipo, se diventa incerta nei contenuti rischiando di  adeguarsi agli schemi della vecchia politica che portano solo alla irrilevanza. Ne consegue anche l’inaccettabile fenomeno dei cambiacasacca ( che io chiamo cambiapelle ) che trovano nel movimento ancora oggi solo un approdo di passaggio da cui migrare in tutte le direzioni con l’illusione, in realtà sempre smentita, di garantirsi un futuro personale in qualche anfratto della politica tradizionale.

Podemos in Spagna, dopo il successo travolgente fra il 2014 e il 2016, che sembrava avviarlo a diventare il primo partito spagnolo sulle macerie di Popolari e Socialisti, ha progressivamente mancato tutti gli appuntamenti della storia. Ha concentrato troppo su una figura (Iglesias) la propria immagine ( lo stesso errore dei 5stelle sulla figura di Conte), ha sfumato la propria origine di novità nata dai movimenti di contestazione dei 15-M e degli Indignados, collocandosi troppo nelle logiche di alleanze e disalleanze della sinistra moderata ed estrema ( stesso problema dei postgrillini). Non ha retto garantendo la tenuta del primo governo minoritario di Sanchez nel 2018 (difficoltà somigliante a quella dei verdi tedeschi nel governo a tre con l’SPD di Scholz e i Liberali ed a quella dei 5Stelle nel Conte 2 con il PD e nell’appoggio al successivo governo Draghi.) Disastrosa per Podemos  nel gennaio 2023 la partecipazione all’alleanza multiforme di Sumar di Yolanda Diaz che comunque non è andata al di sopra del 12% alle ultime elezioni politiche del luglio 2023 ed è già in disfacimento. Una nuova e difficile rifondazione di Podemos con Irene Montero e  Ione Belarra si è avviata con le elezioni europee ( usciti di scena Iglesias ed anche le componenti che con Íñigo Errejón si erano scisse nel 2019).  Nelle storiche elezioni politiche ripetute del giugno 2016 Unidad Podemos aveva sfiorato i 6 milioni di voti e più di 70 eletti (su 350). Nelle recenti elezioni europee, dopo la separazione dall’aggregato di Sumar,  Podemos ha ottenuto 578mila voti e due eletti, mentre l’aggregato di Sumar ha raggiunto solo 818mila voti e 3 eletti. Circa 5 milioni di voti si sono dissolti. Per otto anni Podemos e Iglesias in particolare, hanno subito una permanente aggressione mediatica con diversi mandanti politici ed economici, ma prima di tutto promossa dall’area dei Popolari di Rajoy che governava fra il 2015 e il 2016, sempre nella totale indifferenza dei Socialisti. In queste ultime  settimane di fine  luglio dei giudici hanno aperto un indagine su quei fatti (scandalo che alcuni chiamano il Watergate spagnolo) che videro, in un paese democratico, una azione prolungata di spionaggio e di discredito contro tutti i deputati di Podemos che coinvolse  2700 agenti del ministero degli interni, 57 commissariati di polizia e decine di giornalisti che avevano l’obiettivo di impedire il successo di Podemos e minarne la credibilità con quotidiane accuse inventate e campagne giornalistiche diffamatorie.

I Verdi tedeschi hanno un età e una storia diversa da 5stelle e da Podemos. Già dal 1998 al 2005 hanno avuto un esperienza di governo con i socialdemocratici (SPD) con l’importante ruolo di Joschka Fischer come Ministro degli Esteri e Jürgen Trittin all’Energia con il quale si decise fra l’altro  l’abbandono totale del nucleare in 20 anni. Il risultato è stato ottenuto, però sono ancora aperte alcune grandi centrali a carbone a causa della troppo lenta conversione verso le rinnovabili e della guerra in Ucraina. I Verdi sono al governo in numerosi Lander con diversificati tipi di alleanza, dai Democristiani della CDU alla Linke, con la sola eccezione della estrema destra (AFD). In vari momenti degli ultimi due decenni i Verdi si sono avvicinati ripetutamente, almeno nei sondaggi, a diventare il primo partito della Germania e nel gennaio 2021 è nato un nuovo governo per la prima volta a tre (coalizione semaforo) con SPD e Liberali (FDP). Nel governo di Scholz i Verdi hanno 5 ministri su 12, fra i quali il Ministero degli esteri con Annalena Baerbock ed il superministero dell’Energia con Robert Habeck. Malgrado la forte conflittualità interna (in particolare fra Verdi e Liberali) e la deludente immagine  di Scholz che ha portato ad una crisi crescente dell’SPD, il governo ha portato alcune novità in tre anni: ha deciso l’aumento del salario minimo a 12 euro l’ora, ha avviato la graduale sostituzione del gas per il riscaldamento con l’obbligo delle pompe di calore nelle nuove abitazioni. Si è abbassato il voto ai sedicenni e liberalizzata la cannabis in modiche quantità. Forse troppo poco. La posizione apertamente  a favore dell’Ucraina e l’intenzione di aumentare la spesa militare ( nel 2022 era all’1,4% del PIL contro l’1,7 dell’Italia, l’ 1,9 della Francia e il 2,2 della GB) ha procurato forti critiche dei pacifisti specie a Scholz e alla Habeck. In aggiunta il governo è finito sotto attacco da più parti per i costi degli affitti, per l’aggravarsi dell’inefficienza dei servizi e dei lavori pubblici, per l’aumento della criminalità in alcune grandi città e nelle zone a forte concentrazione di recente immigrazione. I Verdi al governo si sono trovati in alcune occasioni a scontrarsi anche con una parte del loro elettorato. Il caso più rilevante a inizio 2023 nel lungo scontro popolare per l’apertura e l’allargamento della vecchia miniera di carbone e lignite di Luetzerath in Nordreno-Vestfalia dove i Verdi sono anche nel  governo del lander con la CDU. Nelle grandi manifestazioni ambientaliste per impedire la riapertura dell’ impianto ( con la presenza anche di Greta Thumberg e dei principali esponenti di FFF alcuni anche dirigenti dei Giovani Verdi ) la presenza dei Verdi al governo nazionale e locale  è stata pesantemente messa sotto accusa,  vissuta come un tradimento, rifiutando la tesi che accettare  il compromesso di Luetzerath avrebbe portato ad una successiva anticipazione della fuoriuscita totale dagli impianti a carbone nei prossimi anni.

Le evidenti difficoltà dell’intero governo semaforo hanno avuto una pesante conferma nelle elezioni europee: L’SPD è arrivata al suo minimo storico del 13,9%, i verdi all’11,9% perdendo il 40 % dei propri voti del 2019 e in particolare i due terzi del voto giovanile dai 16 ai 24 anni, i Liberali sono scesi al limite del 5% che nelle politiche li metterebbe fuori dal Bundestag. Dopo uno scontro interno al Governo durato mesi sul Bilancio 2025 a inizio luglio sembrava imminente lo scioglimento della coalizione: SPD a difesa di varie spese sociali, Verdi contrari a rinunciare agli impegni di transizione ecologica, Liberali contrari a nuovo debito e ostinati nel sostegno ad un taglio generalizzato delle spese sociali e ambientali. Si è trovato un compromesso che vede un impegno di investimenti per 100 miliardi nel 2025, solo ritocchi sul reddito minimo ma anche il ridimensionamento dell’aumento  delle spese militari da 6 a 1 mld.

A settembre arriva la grande verifica su dove andrà la Germania con le importanti elezioni nei tre principali Lander dell’Est ( Sassonia, Turingia, Brandeburgo). In tutti e tre i sondaggi indicherebbero un grande risultato della estrema destra di AFD forse come primo partito vicino al 30%, con la tenuta della CDU, il forte ridimensionamento dei tre partiti di governo e la tendenza all’aumento di alcuni partiti minori. Fra questi Bündnis di Sahra Wagenknecht che ha abbandonato la Linke, scomparsa dal Bundestag dopo la contestata candidatura di Carola Rackete e il suo deludente risultato alle europee. La Linke è  scesa sotto il 3% e  ha ottenuto tre eletti, la metà dei voti di Bündnis con sei eletti.

4 La crisi dei tre più significativi movimenti politici di alternativa dell’Occidente ha elementi comuni impressionanti, alcuni ovvi ed evidenti ed altri molto meno  su cui vale la pena ragionare. Nati in aperta critica al sistema politico nel suo insieme, spinti dal successo anche rilevante, hanno assunto ruoli di governo in alleanza con partiti tradizionali per lo più di sinistra moderata (socialisti e socialdemocratici) ma non hanno mai messo in discussione concretamente né i sistemi elettorali ereditati dai decenni scorsi ne la cultura politica imperante che tende forzosamente al bipolarismo lasciandosi progressivamente inserire nella logica delle coalizioni e della personalizzazione sui leader che rendono meno visibile il progetto di riforma sociale, le alternative e le nuove priorità. Venire collocati dentro l’alveo tradizionale della destra e della sinistra rende arduo mantenere e far prevalere la propria alterità e con il tempo porta alla marginalità. Sulle questioni sociali emergenti ( fra tutte la necessità della transizione ecologica ed energetica, la gestione delle migrazioni non regolate incrociata con la sicurezza sociale e la xenofobia, l’accentuarsi delle disuguaglianze e la corruzione) si vede il palese fallimento di tutte le destre e le sinistre degli ultimi decenni e in generale una crisi di egemonia delle élite politiche dell’intero Occidente.

- La transizione ecologica richiede di mettere in discussione con coraggio le forme di mobilità basate sull’auto a favore dei vettori collettivi metropolitani a rete, privilegiare l’autonomia energetica delle abitazioni con la autoproduzione da rinnovabili, sostenere la tutela e l’aumento delle alberate e del verde diffuso  nelle città con sistemi di irrigazione minimi nei mesi estivi, l’uso di pavimentazioni che non assorbano calore e la messa al bando di catrame, bitume e asfalto tradizionali, promuovere l’estensione delle zone pedonalizzate per contenere così le isole di calore urbano, riorganizzare il sistema idrico come bene comune per combattere siccità e desertificazione crescente, ridurre la produzione di plastica che va considerata un inquinante in continuo aumento.     

- L’immigrazione richiede la istituzione  di corridoi umanitari permanenti attraverso i quali il paese gestisce direttamente tutta l’entrata dei flussi annuali. Su migranti  irregolari e clandestini e sulla logica emergenziale si misura ormai la incapacità e il fallimento di tutte le destre e le sinistre. Anche il ruolo delle ONG risulta irrilevante e mette in ombra il vero obiettivo che è quello di togliere ai gruppi criminali e dare allo Stato il controllo dell’immigrazione. Va promossa la costruzione di un percorso stabile e diffuso di integrazione in alternativa alla immigrazione irregolare. Servono quindi percorsi di sostegno e controllo permanenti  che garantiscano la sicurezza sociale e contrastino la xenofobia.

- La precarietà del lavoro e la tutela dei più deboli richiede forme di reddito di sopravvivenza, il contrasto del lavoro irregolare e la diffusione di un salario minimo orario universale in tutti i settori, una rivoluzione fiscale che azzeri l’evasione e sia in grado di contrastare le manovre che portano a forme irragionevoli di extraprofitti e ad una fiscalità irrisoria dei grandi attori finanziari.

Si tratta di azioni e scelte di governo ormai note a tanti, possibili, che sono realizzabili anche se trovano ovvi ostacoli e nemici, ma che la gran parte della popolazione può comprendere e condividere. 

Sono convinto che i movimenti di alternativa hanno caratteristiche di riformismo radicale che non coincidono con nessuna destra e nessuna sinistra dell’occidente ma possono attrarre da diverse direzioni una grande maggioranza che oggi percepisce, magari anche nell’astensionismo e nell’inerzia, la necessità del cambiamento e la crisi a cui l’umanità sembra andare rapidamente incontro.

Si tratta della vita e della felicità della nostra e delle future generazioni.

 

bibliografia

Stati per spesa militare - Wikipedia 2022

Europa, perché è crollato l’argine contro le destre - maggio 2024

Il kurdistan che non esiste - febbraio 2018

Sciopero globale del clima, i Fridays for Future nelle piazze di tutta Italia: "Riprendiamoci il futuro" - aprile 2024

Virginia Raggi: “Il Movimento 5 Stelle torni alle origini. Allearci è un errore, ci snatura” - giugno 2024

Il M5S avvia il processo “costituente” - luglio 2024

Assemblea costituente M5S, comunicato del Consiglio nazionale - agosto 2024

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